La prima neve, per una volta, non è quella promessa e sbandierata dalle stazioni di sci, che ormai devono prodursela da sole, la neve, e possono perfino garantire una data certa perché i cannoni scaricano a comando. La prima neve del regista veneto Andrea Segre, giovane specialista di documentari e docu-fiction dedicati all’emigrazione contemporanea, è «quella che tutti in valle aspettano, quella che trasforma i colori, le forme, i contorni. Dani però non ha mai visto la neve. Dani è nato in Togo ed è arrivato in Italia in fuga dalla guerra in Libia. È ospite di una casa accoglienza a Pergine, paese delle montagne del Trentino, ai piedi della Valle dei Mocheni. Ha una figlia di un anno, di cui non riesce a occuparsi. C’è qualcosa che lo blocca. Un dolore profondo. Dani viene invitato a lavorare nel laboratorio di Pietro, un vecchio falegname e apicoltore della valle, che vive in un maso di montagna insieme alla nuora Elisa e al nipote Michele, un ragazzino di dieci anni la cui irrequietezza colpisce subito Dani. Il padre di Michele è morto da poco, lasciando un grande vuoto nella vita del ragazzino, che vive con conflitto e tensione il rapporto con la madre. La neve prima o poi arriverà e non rimane molto tempo per riparare le arnie e raccogliere la legna. Un tempo breve e necessario, che permette a dolori e silenzi di diventare occasioni per capire e conoscere».
Questo è il soggetto de La prima neve, che vive nelle pieghe di un mistero e si conclude con un finale parzialmente liberatorio ma privo di sentimentalismi. Quando sono uscito dal cinema ho scritto al regista per ringraziarlo del suo film, umano senza uso di retorica, attuale, vero. Per la storia, che come sempre nei suoi lavori ci racconta il dolore dei senza patria. Per le montagne soprattutto, che ho trovato finalmente raccontate nel modo giusto, per come sono realmente oggi, senza i soliti stereotipi che ne fanno un mondo finto, retaggio del passato, prigioniere di una civiltà che non esiste più. Nel film di Segre ho trovato le Alpi contemporanee, che sono un laboratorio di passato e futuro, terra e motori, fisarmoniche e canzoni di Vasco Rossi. Questo sono e così dobbiamo raccontarle.
Enrico Camanni
La prima neve, regia di Andrea Segre, drammatico, Italia 2013, 104 minuti
Guido Aristarco scrisse (Il mestiere del critico, Mursia, 1962) che la critica del film è di solito impressionistica, anarchica, imprevedibile: esclamativa nell’elogio e nella condanna. E’ necessario tenerne conto nel leggere le recensioni del film “La prima neve” di Andrea Segre. Enrico Camanni ha giustamente posto l’accento, da quello studioso della montagna che è, sul contesto ambientale. Esprimendosi in modo assolutamente positivo. Le Alpi del film sono in effetti, come osserva Camanni, un laboratorio di passato e futuro, “terra e motori, fisarmoniche e canzoni di Vasco Rossi”. Avercene di film così sulla montagna!
Ma basta scorrere le recensioni su un sito internet e si nota che pochi si soffermano su quella vallata che non è solo uno sfondo casuale, ma rappresenta come meglio non si potrebbe l’isolamento e la solitudine di chi ci abita prigioniero dei propri fantasmi. Colpisce l’immaginazione del recensore, talvolta, la foresta che incombe con le radici ben piantate nel terreno e i rami che si protendono verso il cielo. Una metafora difficile però da definire.
Nelle recensioni la montagna in qualche caso sembra rendere sbiadita, anziché rinvigorirla, l’immagine del dramma dei migranti che vi abitano, quasi banalizzandolo in un viluppo di buoni sentimenti “alla Heidi”. “Lacrimevole dramma familiare, che arranca tra le montagne del Trentino (la valle dei Mocheni)”, definisce il film il critico del Giornale che annota tra il dispiaciuto e l’ironico come la neve del titolo arrivi dopo un’ora e mezzo.
Ma il peggio, questione di opinioni, lo dà il recensore di Vivimilano riservando la visione del film ai soli buonisti. “Anche perché”, scrive, “trionfano i buoni sentimenti, non c’è ombra di razzismo, tutti sono gentili, il disagio è solo interiore”. Avrebbe forse preferito che tra i boschi dei Mocheni comparissero ceffi da Ku Kux Klan a dare fuoco alla casa di accoglienza in cui vive il migrante? D’accordo, non si è tenuti a considerare “La prima neve” un film di montagna tout court, ma si deve convenire con Camanni che qui le montagne “sono finalmente raccontate nel modo giusto, per come sono realmente oggi, senza i soliti stereotipi che ne fanno un mondo finto, retaggio del passato, prigioniere di una civiltà che non esiste più”. Con la speranza che questo filmino relegato a Milano nella microscopica saletta di un cinema multisala possa con il tempo trovare, grazie al passaparola, il suo pubblico naturale, giustamente interessato anche all’ambiente in cui si svolge (la fotografia offre qui suggestioni incomparabili) così come era avvenuto per il mai dimenticato “Il vento fa il suo giro” di Giorgio Diritti dove erano le valli occidentali con i loro disagi a far deflagrare il dramma del protagonista.
Roberto Serafin