Amitav Ghosh, “La montagna vivente. Apologo per i nostri tempi“, Neri Pozza, Vicenza, 2023, 64 pp., 10€.
L’autore de “Il cromosoma Calcutta” propone in questo libretto un racconto – anzi un apologo – intorno a una montagna. Una imprecisata valle nei picchi dell’Himalaya, ma come metafora di tutto il mondo. Considerandone la brevità è pressoché impossibile riassumerne la narrazione senza cadere in pericolose anticipazioni. Pertanto la recensione deve essere altrettanto metaforica. Ma anche così facendo il rischio è di anticiparne i ragionamenti, parte integrante del volumetto – come la trama.
Devo già dirlo: l’Himalaya in questo caso non c’entra niente. È un Paradiso terrestre, sappiamo forse dove fosse il Paradiso terrestre?
O forse no.
Del resto il racconto tratta di una lettura iniziata, poi già interrotta, poi ripresa nel sogno. No, non un sogno: più esperienza di un incubo.
A pensarci c’è una fiaba antica, “Sogni di farfalle” del filosofo taoista Chuang Tzu, del IV sec. a.C., per eventuali appassionati di fiabe cinesi e tibetane inserita in queste raccolte – che lo evoca. Chuang Tzu sogna di essere una farfalla, di fluttuare nell’aria come un petalo, felice di fare quello che voleva senza consapevolezza. Ma si sveglia di soprassalto, domandandosi: fu Chuang Tzu a sognare di essere una farfalla, o fu la farfalla a sognare di essere Chuang Tzu? Chi non ha esperito questa sensazione, ai confini della realtà, almeno una volta. Una differenza qui: saremo tutti Chuang Tzu.
Si ha anche quella sensazione che provocano i film autoriali – Mulholland Drive, per gli appassionati di David Lynch, The Wild Blue Yonder, per gli appassionati di Werner Herzog – che appena visti ti lasciano con la sensazione di avere capito tutto, ben più della trama, ma di non avere capito niente. Lo dovrai rivedere, come rileggere, due, tre, dieci, venti volte. Ed ogni volta avrai la stessa sensazione, con il significato che cambierà nel corso del tempo. Poi incontri un amico, che l’ha amato anche lui: ti dice la sua. Ma è completamente diversa dall’idea che ti eri costruito! “Come fa a pensarla così”, ti dici. Poi lo riguardi dopo due anni, e ti ritrovi a pensarla allo stesso modo. La cosa certa è che, per tutti questi lavori, è impossibile trovare qualcuno che dica “abbastanza piaciuto”. O ami o odi.
Evoca anche La sagra della primavera – Le Sacre du Printemps – per i melomani amanti di Igor Stravinskij: giovani costrette a danzare fino alla morte, come propiziamento divino. Ma sulla montagna vivente la musica è nuova e la danza diversa. E moriranno le adepte?
Ma a ben pensarci sto mentendo, perché un significato ben preciso questo racconto ce l’ha: nel disvelare la montagna vivente come idea del mondo. È una spiegazione umana, anzi sociale, sentimentale, geografica, antropologica, etnografica e pedagogica dell’Antropocene. Questo posso dirlo: lo si intuisce già all’inizio. Se non avete mai sentito questa parola, sarete in compagnia. Se invece già la conoscete, ne otterrete una nuova dimensione.
La montagna vivente è anche un paradigma educativo multiforme: potremo leggerla a scuola, a più parti, rappresentarla, reinventarla, frammentarla, ricomporla. Collegarla alla scienza, funzionerà. Collegarla all’educazione civica: idem, funzionerà.
Ma attenzione a odiarla: parlerà anche di voi.
Alberto Di Gioia