Devo prima ricordare che ho conosciuto suo padre per caso, Luchino Dal Verme, il terzo della famiglia con quel nome. Ero andato nella stessa casa nel 1998 per studiare il secondo Luchino, un prozio del 1838 che con il primo, «nato intorno al 1320», è presente nel Dizionario biografico degli italiani, sono nobili milanesi di alto lignaggio. Il primo Luchino, di Verona, era un condottiero al servizio dei signori della città. Io stavo studiando il secondo, quello che «dopo aver studiato matematica a Pavia, visitò, ancora giovane, numerosi paesi europei e soggiornò a lungo in Inghilterra» e che «nel 1859 – a 21 anni – si arruolò volontario nell’esercito sardo, lasciando, profugo, la Lombardia», militare di carriera e diplomatico fu anche autore di un best-seller: Giappone e Siberia. Note d’un viaggio nell’Estremo Oriente al seguito di S. A. R. il duca di Genova, Milano 1882.

Del secondo Luchino Dal Verme, però, nel Dizionario non c’era nulla riguardo alla sua attività ventennale di deputato – dal 1890 al 1911, del «secondo collegio di Pavia» e poi di «quello di Bobbio», nell’Appennino piacentino – né di quando la sera del 23 giugno 1902 disse alla Camera: «Non è questione, onorevoli colleghi, di nord o di sud è questione di monte e di piano». Da quel discorso, e dal suo impegno politico, è nata la questione della montagna che si è concretizzata nell’art. 44 secondo comma della Costituzione: «La legge dispone provvedimenti in favore delle zone montane» rimasto così dopo essere stato privato della formula iniziale, «nel medesimo intento», per una malintesa “nettezza linguistica”.

Ero così preso dallo studio del secondo che conobbi il terzo Luchino, il padre di Camillo, solo perché ci invitò a pranzo dopo aver saputo che viaggiavo con mia moglie incinta. A tavola gli chiesi, giusto per parlare, che ci facesse lì, un nobile milanese, in una montagna che aveva tutti i difetti dell’Appennino povero, con forti dislivelli, pieno di curve e frane, senza il pregio dell’altitudine. E mi raccontò della Resistenza, di quando i partigiani comunisti lo vollero comandante della loro Divisione 4° Lombardia Antonio Gramsci, lui cattolico e monarchico reduce di Russia, e di come e perché, con moglie e figli, avesse scelto di vivere e lavorare in montagna.

Ho poi letto di lui, del comandante partigiano Maino: ho capito quanto ero stato sciocco. Il terzo Luchino aveva allora 85 anni, è morto a 103 nel 2017. Faccio a Camillo la stessa domanda fatta venticinque anni fa a suo padre: «Ma chi glielo fa fare di starsene qua invece di andare in un bel posto più comodo?».

Da uomo pratico, in pochi minuti riassume scelta e ragione della vita in montagna: l’educazione a viverci da piccoli, senza dimenticare il rapporto con la città, la volontà di continuare a far vivere le terre di famiglia pur conoscendo la povertà dei terreni argillosi, quelli dell’Appennino da Alessandria a Forlì che nel 1902 il secondo Luchino aveva definito  «La Basilicata del Nord» – gli stessi che sono andati giù con l’alluvione della Romagna dello scorso maggio – la competizione con la pianura e poi il cambiamento climatico, l’importanza del bio e la sfida imprenditoriale in montagna.

«Bisogna partire dall’inizio, vivere qui è una scelta di vita. Io sono arrivato ancora in fasce, ho iniziato qui le elementari e mi ricordo che tutte le mattine andavo a scuola con un pezzo di legno per scaldare la stufa della scuola. Poi diventava una cosa troppo stretta, non c’erano compagni. Per cui con i genitori ci siamo traferiti a Milano, dove ho fatto medie e superiori e avevo un gruppo di amici.

Sui vent’anni, ho iniziato l’università ma non mi piaceva studiare, io ero attratto dalla natura, dall’ambiente, e sono tornato qua, a me piaceva stare nei boschi, capire le piante, e l’acqua dove andava… era una cosa dentro di me: vivere il posto. Mi sono sposato e ho messo su casa qua.

Piano piano sono entrato nel mondo del lavoro, perché il papà aveva un’azienda agricola con un allevamento di polli e sono entrato nelle problematiche aziendali, ma l’interesse era e tuttora è legato all’ambiente, al territorio, lo sento parte di me.

Ci sono cose che da un punto di vista economico immediato non rendono niente… un ruscello che quando piove si vede l’acqua che corre e va nella direzione sbagliata, mi metto lì con la zappa e direziono l’acqua da un’altra parte.

A cosa serve? A nulla, però è più logico, è più ordinato, in un futuro penso che faccia meno danno, ci si fa prendere da queste cose che sono piccole, ma d’altra parte sono le piccole cose che fanno poi l’insieme e l’organizzazione generale».

Così lei è andato a Milano con i suoi genitori…

«Il papà ha sempre lavorato qui, andava e veniva, invece la mamma stava a Milano: è la stessa cosa che ho fatto io. I miei figli sono stati qua fino alle medie e poi per le superiori siamo andati a Milano, io andavo e venivo, loro venivano su il venerdì e così hanno fatto anche per l’università e poi è tornata qui anche mia moglie».

E i suoi figli?

«Uno lavora qui con me e uno lavora a Roma, in un grosso ente e anche lui ha voluto far fare ai suoi figli la stessa esperienza. Ha chiesto il telelavoro per venire qui coi figli, poi c’è stato il lock-down per cui è rimasto. Adesso va avanti con lo smart-working e va a Roma una settimana al mese, da cinque anni. È un’altra cosa far crescere un bambino, fino ai dieci anni, in montagna, all’aperto, giocano, vanno, vengono, sono più liberi, c’è contatto con la natura, gli animali, i sassi, la terra… è un’esperienza di vita che non si ripete».

Com’è la sua azienda?

«C’è prima l’azienda avicola, facciamo nascere e alleviamo pulcini di un giorno, oggi per conto di una multinazionale, poi abbiamo le vacche limousine di cui alleviamo vitelli, biologici. È difficile competere con la pianura, qui il terreno è poco fertile e le lavorazioni con le macchine costano sempre il doppio. Papà ha detto: «Sull’allevamento noi non abbiamo questa differenza tra montagna e pianura, anzi, noi abbiamo l’aria più buona, non abbiamo le nebbie, non abbiamo l’umidità, siamo competitivi con l’allevamento’ per cui abbiamo iniziato con i polli. Poi con le vacche. La vacca partorisce, allatta il vitello, in autunno, quando rientra dai pascoli, vendiamo il vitello a un ingrassatore di pianura, sempre biologico. Qui i terreni sono tutti molto argillosi, franosi, e si spostano, vanno, vengono, ma le vacche riescono a pascolare anche in quei terreni. Siamo competitivi con la pianura anche per la riproduzione, è un lavoro più lento, complesso, difficile, ci vuole tempo».

Siete proprio all’antica…

«È il sistema più economico e naturale, ha bisogno di poca manodopera, le vacche sono fuori al pascolo da aprile a ottobre, con il loro toro, vengono fecondate e fanno un vitello all’anno. I pascoli vengono concimati con il letame dei polli e quello delle vacche, è un’economia circolare, non compriamo fertilizzanti.

Poi nel 2009, visto che è cambiato il clima, che sono cambiati i gusti, abbiamo detto “possiamo fare della qualità facendo le bollicine”, perché lo spumante per avere carattere ha bisogno di grandi escursioni termiche tra giorno e notte, che noi abbiamo ancora, e la pianura non ha più, per cui lo spumante buono lo facciamo noi, non la pianura, così abbiamo piantato una vigna di pinot nero per fare spumante.

Abbiamo fatto una prova con quattro ettari. Quando ero bambino c’erano le vigne, quelle dei mezzadri che bevevano il vino che facevano, ma non era buono, era più una fonte di energia. Finita la mezzadria avevamo tolto la vigna, ora con quattro ettari facciamo 20.000 bottiglie».

Da amatori…

«Finché non ti conoscono, non sanno se il vino è buono o no, e allora non lo comprano… Adesso piano piano qualcuno comincia a dire: “Ma quello lì è buono” e allora ne parlano. Quando la parte commerciale andrà bene, ne pianteremo dell’altro, sempre bio, fino alla bottiglia».

Oscar Gaspari