Non più di due mesi fa, al convegno di Dislivelli “Città e montagna, due facce di un solo mondo”, il presidente nazionale dell’Uncem Enrico Borghi ha detto che «le Comunità montane, in Italia, sono l’ultimo anello della catena istituzionale». Parafrasando Borghi si può tranquillamente affermare che la montagna, in Italia, è all’ultimo posto nei pensieri dei partiti politici, dei media e di gran parte dei cittadini, perché siamo un paese urbano centrico (non romano centrico come sostiene la Lega) e ci dimentichiamo di avere 1200 chilometri di Alpi e 1300 chilometri di Appennini da abitare, gestire, proteggere e amare.
Ne discende che l’annoso dibattito riguardante la sopravvivenza delle Comunità montane e la loro eventuale nuova architettura istituzionale sia un dibattito ipocrita, perché a quasi nessuno (Stato, regioni a statuto ordinario, partiti politici) interessa veramente garantire nuova vita alla montagna, mentre gli interessi vanno dal risparmio delle risorse alla gestione dei servizi minimi, comunque minoritari, senza un progetto di respiro che metta insieme il lavoro, l’abitare, la ricerca, la formazione, le risorse rinnovabili, il turismo, la biodiversità. Colpevoli o meno, le Comunità montane sono semplicemente diventate l’alibi per giustificare i disservizi e gli sprechi, oppure, al contrario, per delegare la gestione e la progettazione.
Ora che le Comunità montane sono al lumicino per ragioni economiche e non solo, ci accorgiamo finalmente che la montagna è nuda, nel senso che manca una politica per la montagna e, quel che è peggio, manca una cultura della montagna. Anche i sacrosanti ragionamenti sull’economia verde, che potrebbe assicurare proventi alle terre alte permettendo ai montanari di riappropriarsi almeno in parte delle risorse naturali, rischiano di diventare un nuovo slogan e un nuovo alibi se non saranno inseriti al più presto in un piano di sistema pensato e costruito a cavallo tra la montagna e la città, perché ogni tassello si tiene e nessun successo isolato ha la speranza di durare nel tempo.
E veniamo alla discussione in senso stretto. Tutti gli amministratori intervistati concordano sul fatto di essere senza soldi, perché quelli che sono arrivati in zona cesarini bastano appena a pagare i mutui e garantire le spese ordinarie. Si spera che le cose vadano meglio in futuro. Quasi tutti individuano degli aspetti interessanti nel nuovo impianto legislativo regionale (CM come agenzie di sviluppo, unione dei Comuni, elezione diretta dei rappresentanti), ma poi faticano a tradurli in azioni pratiche: le agenzie di sviluppo avrebbero almeno bisogno di denaro per i consulenti e di corsi formativi per i dipendenti, e mancano entrambi; le unioni comunali potrebbero esistere a prescindere dalle Comunità montane, e infatti ci sono casi dove i sindaci lavorano già insieme; l’elezione diretta dei rappresentanti è positiva per alcuni, perché più chiara e meno complicata che in precedenza, e negativa per altri, perché incentiverebbe lo scontro politico.
Poi ci sono gli accorpamenti, che spesso non rispondono a ragioni culturali e territoriali preesistenti, e quasi sempre hanno introdotto nuove difficoltà di organizzazione, imponendo maggiori spostamenti sul territorio. L’idea che ogni valle debba amministrarsi da sé è sicuramente miope e dispendiosa, ma l’attuale dimensione delle Comunità montane resta comunque troppo piccola per dialogare con la città e talvolta disomogenea per unire interessi, culture e vocazioni comuni. Sta di fatto che la gente, già storicamente disaffezionata alle caratteristiche burocratiche delle Comunita montane («venivano usate come fossero dei bancomat») fa ancora più fatica e capire e orientarsi: «Le Comunità montane non sono mai entrate nel cuore delle persone che abitano in montagna perché non hanno mai venduto bene quello che fanno».
A monte di tutto abbiamo raccolto l’opinione diffusa che la riforma sia positiva ma manchi di braccia e gambe per camminare. Tutti pensano che ci sia bisogno di qualcosa per aiutare la montagna, la “cosa”, ma ne parlano come di un pensiero astratto e non ben identificato, diverso dalle Comunità di ieri e anche da quelle di oggi, non troppo assistenzialista ma portatore di denari pubblici, simile alle unioni comunali ma non a quelle che ci sono adesso, indipendente dalla città ma con i soldi della città.
Una confusione progettuale molto in linea con la politica nazionale, fatta di illusioni che durano mezza legislatura, tipica di un paese che si arrangia per tirare avanti e dove chi si arrangia da ultimo – la montagna – ha ancora meno strumenti per guardare lontano.
Vorrei concludere con due riflessioni personali. Prima riflessione: che le Comunità montane sopravvivano o meno, senza un’adeguata classe dirigente non faranno strada, e con questo intendo amministratori capaci di dialogare con i poteri forti, utilizzare i consulenti migliori, progettare le azioni più innovative. Proprio perché la montagna è l’ultima della catena ha bisogno di idee vincenti, da prima della classe, approfittando del suo straordinario patrimonio ambientale e dell’evidente ruolo d’avanguardia che presto le competerà, di fronte a un modello consumistico urbano afflitto dalla crisi e dalla disoccupazione.
La seconda riflessione riguarda la dimensione e il peso delle Comunità montane, che non saranno mai in grado, se isolate e sole, di promuovere e orientare le politiche della montagna. Da un lato andranno certamente supportate dagli accordi intercomunali per risolvere i piccoli problemi sui territori omogenei, dall’altro andranno affiancate e dirette da altri soggetti di progettazione politica, per esempio su scala provinciale. Tutto è possibile, meno l’illusione che le valli possano salvarsi da sole in un mondo globale.
Enrico Camanni