Uno degli stereotipi più duri a morire viene forse ancora dalla Grande Guerra, che consacrò il modello della montagna tragica e austera, la Madre che non perdona, su cui il fascismo fece presa per cantare le gesta eroiche degli alpini e degli alpinisti. Pochi miti della storia moderna hanno impiegato tanto tempo a sbiadire e a perdere forza, senza mai abbandonarci del tutto, anche se si tratta di una memoria di sofferenza e morte (o forse proprio per questo), anche se è il ricordo di un sacrificio che lasciò sulla terra una generazione di ragazzi innocenti.
Armando Biancardi ha scritto nel 1975: «Si avvertono, tra alpinismo e guerra, analogie che sorprendono. La morte vicinissima, lo spirito di corpo (la cosiddetta solidarietà alpina, così viva tra le penne nere), lo stesso abito da alpinista: non è un po’ come una divisa? Il mangiare e il bere, i cori, le notti sotto le stelle: non sono per alpinisti e militari dello stesso stile?».
Se a questo aggiungiamo la terminologia alpinistica (attaccare la parete, vincere la cima) e la tradizione maschile e maschilista della montagna, abbiamo un quadro di quanto la guerra e la retorica alpina abbiano condizionato il secolo breve. Mentre il mare suscitava onde di piacere e venti di trasgressione, l’alpe si caricava fardelli di fatica e sofferenza purificatrice, accreditando l’idea della “montagna assassina”.

Su questi ingredienti, per circa cinquant’anni, i registi, gli scrittori e i giornalisti hanno costruito la rappresentazione della montagna. Il romanzo di alpinismo più fortunato della storia, Premier de cordée di Roger Frison-Roche, racconta di una giovane guida colpita nel fisico e negli affetti (il padre è morto colpito dal fulmine sull’Aiguille du Dru e il giovane precipita anche lui, salvandosi). Il più riuscito lungometraggio di montagna, Cinque giorni un’estate di Fred Zinnemann, narra del drammatico triangolo amoroso tra una bella cittadina, lo zio alpinista e l’immancabile guida alpina: il sacrificio della guida uccisa da una scarica di sassi redimerà la relazione incestuosa. Per decenni le popolarissime copertine della Domenica del Corriere fanno a gara nel dipingere crepacci antropofagi, valanghe killer, abissi omicidi.
Quando viene il Sessantotto, o meglio gli anni Settanta, molte cose cambiano nell’alpinismo. Sulle pareti di granito folgorate da lampi psichedelici i ragazzi del Nuovo Mattino rifiutano gli obblighi sacrificali della lotta con l’Alpe, il mito-espiazione delle cime ricoperte di croci, gli abiti grigi della festa, e provano a metterci dei vestiti colorati e delle facce sorridenti. I primi accenni di erotismo fanno timida comparsa in un microcosmo ancora rinchiuso fra triviali uscite da caserma e ascetismi da sacrestia. Il messaggio nuovo comincia a “passare” quando Reinhold Messner, il migliore comunicatore della storia dell’alpinismo, confessa che in cima agli ottomila lui non fa sventolare nessuna bandiera: solo il foulard strappato dal vento.
Ma passano anche gli anni Settanta e, in un classico processo di riflusso, l’immagine della montagna si ripiega ambiguamente in due direzioni: da un lato diventa “museo”, ricettacolo di tradizioni e uomini virtuosi, dall’altro si fa “stadio”, luogo indistinto dove gli atleti compiono gesti mirabolanti sulla roccia e sulla neve.

Il primo modello è quello della montagna che non c’è più, mondo di vinti ed emigranti, culla di valori perduti, patrimonio materiale e immateriale di bellezze ed eredità del mondo di ieri. Su questo modello si innesta una comunicazione concentrata sulla nostalgia. Al contrario il secondo modello è quello della montagna che non c’è mai stata, perché riproduce i valori e i gusti della città. Si tratta di quel largo ventaglio comunicativo che va dagli sport invernali alle discipline dell’outdoor, dall’“estremo” all’avventura regolamentata (impianti, piste, percorsi attrezzati), dalla seconda casa all’offerta alberghiera, passando per un caleidoscopio di forme, colori, accessori, personaggi e mode indirizzati a un turismo inconsapevole e irresponsabile.
La conseguenza di questa doppia falsificazione dell’immagine della montagna, e delle Alpi in particolare, è che nel vuoto di realismo e “verità” continua a trovare spazio il vecchio stereotipo dell’alpe assassina. Giornali e televisioni non si mobilitano per raccontare la montagna contemporanea, con le sue luci e le sue contraddizioni, ma solo per commentare – con le parole di sempre – i momenti tragici e catastrofici delle terre alte: le disgrazie alpinistiche, le alluvioni, le frane, le valanghe, la caduta dei seracchi, lo scioglimento dei ghiacciai.
La vecchia favola tragica continua a nascondere il vero, forse perché nessuno è veramente interessato a svelarlo.
Enrico Camanni