Giuseppe Mendicino non ha bisogno di presentazioni per i lettori di Mario Rigoni Stern: curatore di raccolte di testi inediti e autore della biografia dello scrittore asiaghese (“Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri”, per Priuli e Verlucca 2016), Giuseppe durante gli anni ha pazientemente raccolto un prezioso e ricchissimo archivio di documenti cartacei, fotografie, lettere, articoli e racconti, spesso sparsi in edizioni minori, oltre ad avere curato personalmente mostre ed eventi dedicati al grande Sergente. E proprio per parlare della Val d’Aosta di Rigoni Stern e del suo amico Primo Levi, dialogando con lo studioso Mario Luzzatto, Mendicino era al festival “Il richiamo della foresta” lo scorso mese di luglio, invitato dallo scrittore Paolo Cognetti, che nel Sergente da sempre riconosce un maestro di vita, prima ancora che di stile (non a caso, “Gli Urogalli” è il nome scelto per l’associazione di amici della montagna di recente fondata da Paolo).
In Val d’Ayas mi sono incontrato con Giuseppe, davanti ad una classica polenta e spezzatino la sera prima, e nella radura tra i larici di Estoul il giorno seguente, al suo ritorno da una lunga escursione sui luoghi in cui è ambientato il romanzo “Le otto montagne”.

Foto Giulio Malfer, Rigoni Stern e Mendicino

Giuseppe, a un conoscitore profondo dell’opera di Rigoni Stern, che cosa dice la scrittura di chi, come Paolo Cognetti, dichiara apertamente di ispirarsi al narratore asiaghese?
Lo stile di Cognetti prende molto dai nostri autori della cosiddetta “scrittura chiara”. Come sai, ci fu una famosa discussione tra Primo Levi e Manganelli su “scrittura chiara” e “scrittura scura”. Gli autori della “scrittura chiara” sono Sciascia, Revelli, Calvino, Levi e naturalmente lo stesso Rigoni Stern. Proprio Levi diceva di se stesso, Rigoni e Calvino: “siamo come i tre petali di un trifoglio”, perché abbiamo vissuto esperienze simili e siamo accomunati dal modo in cui le raccontiamo. Sono infatti tre autori che hanno una scrittura per certi versi simile, ricca di vocaboli, attenta ai termini usati, come si vede bene in “Arboreto salvatico” di Rigoni, che sembra scritto da un naturalista.
E Paolo Cognetti, secondo me, segue questo filone, perché il suo modo di scrivere è molto pulito, attento, i termini sono scelti con cura… C’è un’eleganza nella sua scrittura, che si nota già ne “Il ragazzo selvatico”, un libro che consiglio di portare nello zaino quando si va in montagna, insieme a “L’ultima partita a carte” di Rigoni Stern o a “Il sistema periodico” di Levi.

Quindi la linea è questa… in cui trovi una continuità tra gli autori…
Sì, e poi, oltre a quella letteraria, c’è la continuità etica. Se leggi quello che ha scritto di recente Cognetti su “Repubblica”, una forte critica rispetto all’operazione che vogliono fare sul Monte Rosa per nuovi impianti di sci, con 8 chilometri di funivia, per il progetto Cime Bianche… ecco, Rigoni Stern lo avrebbe abbracciato per quell’articolo. Mario infatti faceva parte di un “Gruppo salvaguardia Altipiano” e si è battuto molto per la difesa dell’ambiente nei suoi monti. I loro valori sono simili e complementari: la serietà, l’onestà, il coraggio e anche un certo gusto del rischio, e poi una grande attenzione alla natura. Rigoni diceva: i miei compaesani non sono solo quelli dell’Altipiano, sono in tutto il mondo. Uno dei protagonisti dei suoi libri, Tönle, odiava i confini, li trasgrediva continuamente. Era un contrabbandiere, uno spirito libero, odiava la guerra, era individualista e generoso al tempo stesso.

Come avrebbe vissuto Rigoni Stern un momento pubblico come questo festival? Che impressione ne avrebbe ricavato, secondo te, da un evento così particolare?
Lo avrebbe vissuto bene. Amava Jack London e il “richiamo” credo che gli sarebbe piaciuto. E poi lui era un “solitario socievole”. Era molto disponibile con gli altri, anche con le scolaresche. Si trovava bene con i ragazzi perché gli facevano domande dirette: “che cosa ha provato in guerra?”, “ha mai ucciso qualcuno?”. Riceveva i lettori a casa sua, se era bel tempo nel suo “arboreto salvatico”, tra la sequoia, il larice, il ciliegio, la betulla.

Questo è un tratto del suo carattere che anch’io ho avuto modo più volte di sperimentare. Erano tanti i giovani e i meno giovani che risalivano la Val Giardini per andarlo a trovare e la sua porta non era mai chiusa.
Sì, un’ora del suo tempo gliela dedicava sempre… E poi io non conosco un altro autore del Novecento italiano che abbia dedicato un racconto ad un suo lettore, come ha fatto Mario con “Breve vita felice”, in cui parla di una ragazza di Venezia – morta giovanissima – che aveva conosciuto Ezra Pound e che poi era stata a trovarlo ad Asiago. Altri scrittori sono invece scostanti e concentrati sul proprio ego.

Foto Adriano Tomba

Come hai conosciuto Mario?
Sono arrivato a lui non tramite la letteratura di montagna – pensa – ma per via di quella di mare. Io sono da sempre appassionato di Conrad e di Hemingway e avevo letto un giorno di come Rigoni avesse amato da giovane questi autori, su cui si era in parte formato. E allora mi sono detto: devo conoscerlo. Perché alla fine, mare e montagna non sono tra loro opposti, direi invece che sono complementari. Io poi sono un appassionato di storia e di letteratura, ma del genere narrativo. E Rigoni Stern era innanzitutto un narratore. Amava ripetere “io non invento niente, non sono un romanziere”. Ed era capace, anche in sole cento pagine, di condensare avvenimenti storici della durata di decenni o più, come fa ne “L’anno della vittoria”, per esempio, dove racconta della Grande Guerra.

Il successo per Rigoni Stern non è però arrivato in fretta.
Rigoni, come ancor di più Levi, ha faticato ad essere pubblicato e conosciuto quindi dal grande pubblico. Nel dopoguerra gli editori spesso rifiutavano opere come le sue, dove il realismo lascia spazi alla riflessione e a momenti di prosa poetica.

Lirica, possiamo dire.
Sì, lirico-realista.. Poi questi autori, a lungo etichettati come “memorialisti”, lentamente si sono fatti strada. Qualche hanno fa, quando c’era nella società qualche dubbio di tipo etico o morale, spesso si diceva: vediamo che cosa ne pensa Primo Levi, che cosa ne pensa Rigoni Stern. Adesso, a chi chiediamo? Mi viene in mente in mente un solo nome: Corrado Stajano.

Il successo di Cognetti invece sembra essere giunto più in fretta.
Paolo Cognetti ha avuto un grande successo e questa è stata la sua fortuna, ma dall’altro lato si è attirato delle invidie davvero meschine, anche in occasione della sua vittoria al Premio Strega, da parte di autori spinti da grandi case editrici ben oltre i loro meriti. Paolo ha una lunga gavetta alle spalle – penso ai libri per Minimum fax – e ha fatto tanti mestieri per vivere: non gli hanno regalato nulla.

Eppure Cognetti è stato in grado di suscitare un’adesione molto particolare, a livello di lettori e di persone che, in modo trasversale, si riconoscono non solo nel suo prodotto letterario, di indubbia qualità, ma anche in un messaggio più ampio, come possiamo vedere qui al festival.
Io sono contento che questo libro non sia solo ben scritto, ma che abbia anche suscitato un interesse per la montagna, per la vita e per i valori ambientali, da parte di ragazzi di città che magari avevano altri interessi, altri gusti. Senza volerlo, ha indicato un altro modo di vivere: più riflessivo, più responsabile, e anche più coraggioso.

Se tu dovessi consigliare ad uno di questi ragazzi una lettura di Rigoni Stern, quale sceglieresti?
Di Mario suggerirei il racconto “Un Natale del ’45”. E poi consiglierei anche “Ferro”, del suo grande amico Primo Levi, a cui Mario voleva davvero tanto bene. Sono due racconti che farei leggere nelle scuole: entrambi un inno alla libertà, al senso di responsabilità, al dare senso e valore a ogni giorno della nostra vita.

“Ferro” è anche uno dei racconti preferiti di Cognetti.
Sì, è vero. Anche per questo dico che c’è un filone unico che lega questi autori e che riguarda non solo lo stile, ma anche un comune codice di valori. C’è un grande bisogno di un approccio costruttivo e lungimirante nella società, anche rispetto alla montagna. Rigoni Stern diceva ai ragazzi: “non voglio darvi nessun messaggio, quelle sono cose da postini. Ma voi abbiate sempre il coraggio di dire no. Siate ribelli per giusta causa. Non siate conformisti. Non salite sul carro del vincitore di turno. E soprattutto, non perdete tempo. Non perdete tempo in cose futili, altrimenti, quando sarete vecchi e deboli rimpiangerete le montagne che non avete salito e le battaglie che non avete combattuto”.

Giuseppe, prima di lasciarci, puoi anticiparci qualcosa sul tuo prossimo progetto editoriale, a cui so che stai lavorando alacremente? Siamo sempre in tema di uomini e montagne, naturalmente.
Sì, lo sto completando in questi giorni e uscirà nella prossima primavera. Ho scritto una serie di profili di uomini e di donne – scrittori, alpinisti, partigiani, artisti – accomunati da una particolare e riconoscibile etica della vita e della montagna. Tra questi, Nuto Revelli, Tina Merlin, Massimo Mila, Mario Rigoni Stern, Primo Levi, Ernest Hemingway, Dino Buzzati, Adolf Vallazza, Tino Aime, Renato Chabod, Giovanna Zangrandi, Dante Livio Bianco. Ma anche personaggi più vicini ai nostri giorni come Giovanni Cenacchi, Mirella Tenderini, Paolo Cognetti. Uomini e donne da ricordare. Non deve andare perduto o essere edulcorato il patrimonio di cultura e di civiltà che ci hanno donato, la loro capacità di indignarsi, il loro amore per la libertà. E nella copertina ci sarà spazio per un bellissimo acquarello di Nicola Magrin, realizzato appositamente per questo libro.
Andrea Membretti