Se gli studi storico-antropologici sulle Alpi paiono aver chiarito che nessun popolo è nato montanaro, sembra ormai altrettanto assodato che le diverse migrazioni verso l’arco alpino avvenute negli ultimi sette-otto secoli, siano state spinte da un mix di fattori, dove la componente della scelta appare sempre strettamente connessa a quella della necessità, in presenza (indispensabile) di un quadro politico-territoriale favorevole.
Questo intreccio tra volontà e costrizione si ritrova in una delle più studiate tra queste migrazioni, ovvero quella del popolo Walser, avvenuta durante il Medioevo: diversi autori (sul versante italiano, tra i primi Luigi Zanzi ed Enrico Rizzi) hanno infatti evidenziato l’anelito alla libertà che spingeva queste comunità del Vallese verso le terre alte, alla ricerca di forme di autogoverno e di gestione dei propri interessi economici e sociali, svincolate dai vassallaggi e dalle varie forme di servitù della gleba che gravavano su quanti vivevano in pianura o nei fondovalle.
Nel contempo, tuttavia, gli studiosi hanno concordato sostanzialmente sul peso complementare del fattore necessità rispetto a questa migrazione: i Walser venivano da territori in cui la pressione antropica era cresciuta eccessivamente, dove le terre da dissodare si erano esaurite e in cui, appunto, la pressione politica e fiscale dei signori locali diveniva sempre più difficile da sopportare. Se il loro spostamento in massa e a ondate successive verso le Alpi e verso sud ha avuto come push factor quanto appena ricordato, esso non sarebbe potuto avvenire senza una corrispettiva presenza di pull factor altrettanto significativi: primo fra tutti, l’offerta gratuita di terre da parte dei vescovi e dei signori locali i cui domini si spingevano sino a quelle aree di valico e di confine; in cambio essi ne ottenevano la “messa in sicurezza” e il dissodamento ad opera di coloni, disponibili a prendersene cura antropizzandole e a giurar loro fedeltà, pur nelle larghe autonomie concesse. La migrazione Walser verso le terre alte intorno al Monte Rosa appare dunque il frutto (come sottolineava Augusto Vasina su L’Alpe, n.5 del 2002) di una comune utilitas, laddove gli “immigrati stranieri” (di origine alemanna), costretti a lasciare le proprie terre, si andavano ad insediare liberamente in “spazi vuoti”, conquistando pacificamente “terra e libertà” (a partire dalla facoltà di mantenere i propri usi e costumi – come testimoniato in primis dalla preservazione del proprio stile costruttivo – ma anche ottenendo diritti speciali, come quello dell’affitto ereditario perpetuo o come la disponibilità di beni comuni). Nel contempo, accettando un legame politico con i signori locali, i Walser si inserivano comunque in un ordine istituzionale superiore, che legittimava la loro considerevole autonomia in un quadro più ampio di norme e regole, prodotte dal potere planiziale.
La vicenda migratoria di questo popolo ci può insegnare qualcosa rispetto all’attuale fenomeno dell’immigrazione straniera e dell’arrivo dei rifugiati nelle Alpi? Credo di sì, pur nella sua diversità e lontananza nel tempo.
Innanzitutto evidenzia il pull factor costituito dagli “spazi vuoti” (“approfittare del vuoto” dice in merito l’antropologo Francesco Remotti): terre non dissodate e ad alta quota, nel caso dei Walser; terre inselvatichite ma a quote decisamente più basse, e in condizioni di accessibilità assai più facili, quelle verso cui oggi si dirigono i flussi migratori, liberi o forzosi che siano. Terre totalmente disabitate quelle dei Walser, terre ancora popolate, ma spesso in forte crisi demografica, quelle che oggi accolgono (più o meno volentieri) gli stranieri. In entrambi i casi, comunque, l’arrivo di nuova popolazione è reso possibile dalla rarefazione sociale pre-esistente, secondo processi di natura tipicamente ecologica: se però i Walser non si trovavano di fronte sostanzialmente alcun abitante pre-esistente, i “montanari per forza” di oggi si trovano a confrontarsi invece con identità pregresse, con comunità spesso ai minimi antropici ma ancora resistenti, con sistemi di relazioni e di significati sedimentati nel tempo, con la cui realtà (o perlomeno eredità) è impossibile non fare i conti.
Un secondo elemento di riflessione è rappresentato dal nesso tra libertà e necessità: i Walser non erano costretti ad insediarsi intorno al Monte Rosa, così come non lo sono stati fino ad oggi i “migranti economici” stranieri, giunti nei comuni alpini in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita; mentre ai primi, però, le terre e i diritti sono stati offerti dai signori locali, che attribuivano così in modo esplicito un valore positivo a quest’opera di colonizzazione esterna, assai raramente ai secondi è stata da qualcuno fatta un’offerta esplicita di qualche tipo di risorsa, in cambio del loro insediarsi nelle terre alte (emblematico, nel suo essere poi rimasto sostanzialmente isolato, è il caso di Taipana, in Friuli, il comune che già negli anni Novanta promise alloggi gratis agli stranieri disponibili a prendere la residenza in loco, a fronte di un collasso demografico altrimenti inarrestabile. Ne scrivevo su Mountain Dossier n.4, pag.34. I “migranti economici”, piuttosto, si sono insediati progressivamente e in punta di piedi, senza essere oggetto di politiche specifiche di tipo nazionale né di agevolazioni a livello locale: l’ipotesi che una loro presenza diffusa nelle Alpi e negli Appennini possa assumere i tratti della colonizzazione viene quasi sempre dipinta come una minaccia e non come una potenzialità da gestire e da indirizzare. La paura della diversità socio-culturale, soprattutto in contesti fragili come le “aree interne” del nostro Paese, prevale di regola sul ragionamento razionale, che suggerirebbe invece l’attenta considerazione, in termini “ecosistemici” e da un angolo visuale più ampio, delle opportunità dei rischi connessi all’arrivo di nuovi abitanti in territori spesso demograficamente dissanguati.
Nel caso poi dei rifugiati, la logica che fino ad oggi è sembrata prevalere (con l’eccezione di alcune buone pratiche, raccontate anche in questa rubrica) è quella della deportazione o, se non vogliamo usare un termine così radicale, quella del “ricollocamento temporaneo”: i richiedenti asilo non godono di alcun grado di libertà rispetto al loro insediarsi nei territori montani, non sono oggetto di alcuna politica di incentivo specifica ma, al contrario, sono destinatari di norme ad hoc, che li vincolano obbligatoriamente alla permanenza nelle terre alte, per un periodo medio di un anno e mezzo, terminato il quale (in caso di riconoscimento dello status di rifugiato e, quindi, del diritto a rimanere in Italia) sembrano del tutto mancare gli interventi volti a favorire il passaggio di almeno una parte di queste persone da “montanari per forza” a “montanari per scelta”. Per loro le Alpi rischiano di essere non terra d’asilo, ma spazio di confino, o, nel migliore dei casi, limbo dove attendere la libertà di trasferirsi finalmente altrove. E il lavoro “volontario” che si vorrebbe oggi imporre loro per decreto assomiglia assai più ad una forma di corvée imposta, piuttosto che ad un contributo libero alla cura del territorio in cui si trovano a vivere.
Se l’insediamento dei coloni Walser rispondeva dunque ad un logica di scambio (terra e diritti in cambio del presidio delle alte quote), a quale logica risponde l’accoglienza montana dei migranti e il ricollocamento forzoso dei richiedenti asilo ai giorni nostri? Credo che sia necessario ripartire da questa domanda, di carattere più generale e svincolata da qualsiasi visione emergenziale della questione. I fenomeni migratori internazionali sono ormai un dato strutturale, che come tale va trattato: sembrano maturi i tempi per una politica nazionale delle aree interne e montane che consideri migranti economici e profughi come fattore di sviluppo e non come problema da scaricare su territori marginali.
Andrea Membretti
Ottimo articolo, grazie!
Un’analisi complessa, ma molto ben riuscita. All’epoca dei Catari immagino sia accaduto per loro quando vennero nelle ns vallate.