In relazione alla sempre più complessa situazione internazionale che riguarda il crescente flusso di rifugiati e di richiedenti asilo verso l’Europa, l’Austria, con modalità unilaterali che hanno lasciato interdetti per primi gli abitanti e le istituzioni politiche dell’Alto Adige/Süd Tirol, ha ripristinato la frontiera del Brennero, non più attiva dall’adesione di questo Paese al Trattato di Schengen (avvenuta oltre vent’anni fa, nel 1995). Il riposizionamento dei controlli al transito (tramite la costruzione di una barriera lunga 250 metri, per limitare, in caso di necessità, l’accesso di migranti provenienti dall’Italia) è stato accompagnato da una significativa manifestazione di protesta, organizzata da movimenti e centri sociali italiani, austriaci e tedeschi, il 20 febbraio scorso, segnata da violenti scontri con la polizia. Mentre scrivo, la polemica continua, con posizioni pro e contro questo intervento, nel nome da un lato della tutela degli interessi e della sicurezza nazionali rispetto all’ “invasione” straniera dei migranti, e dall’altro lato, della salvaguardia della libera circolazione all’interno della Ue, da garantirsi tanto ai cittadini comunitari, quanto ai soggetti terzi, per di più se in fuga dalla guerra.
Il tema in questione – con le sue molteplici implicazioni socio-economiche, politiche e simbolico-culturali – mi sembra essere di grande importanza per chi si occupa di temi alpini, e ancora di più, per chi vive e opera in questa macro-regione europea. Come ci ricorda Annibale Salsa (nel suo “Il tramonto delle identità tradizionali”), l’identità alpina si è infatti storicamente costruita proprio sulla transfrontalierità, dando luogo a quella cultura dell’interazione sociale, tipica di zone liminari, di territori “sospesi”. Un’interazione tra i versanti opposti dei monti (spesso appartenenti a nazioni diverse e passati dall’una all’altra nel corso di guerre, scambi e trattati) che ha dato luogo a perduranti forme di ibridazione e di osmosi tra le montagne e la pianura urbanizzata, in rapporto alle dinamiche socio-demografiche degli ultimi sei-sette secoli. La civiltà alpina, nei suoi caratteri fondanti, appare dunque storicamente trans-nazionale, connotandosi come organizzazione sociale legata al transito di cose, di persone e di idee, oltre che manifestandosi sul piano insediativo – sempre seguendo l’analisi di Salsa – con forme di residenzialità “aperte all’altrove” (ovvero aperte al portato esterno in termini di immigrazione, emigrazione ritornante, transumanza, commercio, lavori stagionali, pellegrinaggio, viandanza).
Saranno la creazione degli stati nazionali moderni, con la loro enfasi sulle frontiere (un fronteggiarsi che prenderà i tratti della contrapposizione nazionalistica e poi della guerra aperta) e l’approccio catalizzatore urbanocentrico, a rendere progressivamente i territori alpini marginali, connotandoli non più come ponti (la logica del valico), ma come barriere (la logica del fronte). Spopolamento e marginalità alpine, come piaga che attraversa tutto il Novecento, sono allora il frutto anche e soprattutto della perdita di autonomia delle terre alte, quando queste sono divenute periferie degli stati nazionali (e, parallelamente, presidio dei “sacri confini della Patria”), scivolando nella conseguente subalternità culturale, oltre che economico-sociale, ai modelli organizzativi planiziali. Per molti anni, il paradigma idrografico (la logica dello spartiacque) prenderà allora il posto di quello etnografico (la logica della relazione tra versanti opposti), mirando a delimitare in senso nazionale lo spazio certo (oro-idrografico) da quello incerto (socio-etnografico): un caso emblematico della frammentazione a cui andrà incontro l’universo alpino nel secolo scorso è proprio quello del Tirolo, laddove la lunga storia comune delle genti di queste valli verrà interrotta dall’annessione all’Italia del Süd Tirol/Alto Adige, dopo la Prima Guerra Mondiale, e dalla creazione della frontiera internazionale al passo del Brennero.
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale e con la progressiva unificazione europea, consapevoli della tragedia causata dai nazionalismi e dai protezionismi che proprio sulle Alpi si sono scontrati, abbiamo assistito ad un movimento opposto, favorevole alla riunificazione dello spazio alpino; un movimento di lunga durata, che si è sostanziato nello sviluppo di programmi di cooperazione transfrontaliera, nella costituzione di organismi alpini internazionali per la governance territoriale, nella rimozione dei controlli alle dogane e, da ultimo, nel recente varo della strategia europea macro-regionale Eusalp, che individua nell’arco alpino la vera “cerniera” tra nord e sud del continente, connotando questo spazio come un fondamentale hub europeo a livello economico e produttivo (46 regioni interessate, che attraversano 7 Stati e in cui vivono 76 milioni di persone, in uno dei territori più ricchi dell’Unione).
Quanto va accadendo dunque in queste settimane al confine alpino tra Italia e Austria (analogamente a quanto già era accaduto nei Balcani, con i muri e i reticolati eretti nei mesi scorsi contro il flusso dei rifugiati), e che è stato presentato dal governo austriaco come un’operazione di “management di confine”, appare particolarmente grave: si tratta di una minaccia a quel processo di riunificazione delle Alpi che forse, per la prima volta nella storia, potrebbe conferire un’inedita autonomia a questa macro-regione, riportandola realmente al centro del continente. Non stupisce, allora, sul versante italiano la presa di posizione netta e contraria sia da parte di chi opera nel campo della solidarietà verso gli stranieri (la Fondazione Migrantes della Cei ha parlato di “una ferita per l’Europa”), sia di chi è attento alle variabili economiche e dello sviluppo territoriale (per il Governo italiano, il sottosegretario all’Interno Manzione ha dichiarato che «la chiusura del Brennero avrebbe implicazioni economiche tutt’altro che trascurabili. La regione europea del Tirolo Storico – che mette in connessione i territori di Trento, Bolzano e Innsbruck in una logica veramente europea – ne esce indebolita, se non smentita».
Il tema dell’immigrazione straniera si conferma dunque come centrale per le Alpi, non solo rispetto alle prospettive di neo-popolamento delle terre alte connesse ai flussi migratori (logica dell’insediamento), ma, oggi in modo ben più evidente, per l’impatto, anche indiretto, che questo fenomeno sta avendo sulla geopolitica alpina e sulle possibilità di sviluppo autonomo per questa macro-regione (logica della mobilità e dell’attraversamento). La politica di chiusura delle frontiere rischia, come effetto indiretto, di spingere nuovamente le aree alpine verso la periferizzazione, proprio nel momento storico in cui stiamo assistendo ad importanti segnali di “risveglio” e di resilienza in molte delle terre alte.
Andrea Membretti