Scendere a valle per me ogni volta significa rischiare di finire in una cunetta con l’auto. Gli occhi curiosi non si fermano e non riescono a non voltarsi a guardare quella casa, oppure quell’altra, ai bordi del campo, ai bordi del bosco, mentre la macchina segue le curve che portano in bassa valle. La valle è come una vetrina immobiliare dove case da sogno se ne stanno là, vuote da anni. Posizionate ai margini dei campi. Ognuna con le sue tante funzioni. Ai margini del bosco, solitamente di castagno, vicino a un rio, molto spesso, o a una piccola sorgente o uno stagno. Utile per la lavorazione della canapa.
La loro collocazione è strettamente connessa agli usi che anni fa se ne faceva. La casa come luogo di produzione e di vita, in completa autosufficienza. Il campo, che con difficoltà dava grano e melica, la canapa lavorata nello stagno che dava le lenzuola e, se filata bene, qualche capo di vestiario. Le pecore per la lana (per i materassi, per i maglioni e le calze). Qualche vacca, che oltre al latte e la carne, dava la pelle per la fabbricazione delle proprie scarpe. Veniva il calzolaio per fabbricarle per tutta la famiglia. I buoi per il traino dell’aratro. Poi c’erano vicini i mulini, per la macinatura. E il mugnaio si retribuiva direttamente con i prodotti. L’aia per l’essiccazione delle granaglie. I casoni nel bosco per l’essiccazione delle castagne. E il bosco: quanti prodotti dava il bosco! E pensare che oggi buona parte di esso è in completo abbandono. Durante le esplorazioni per le mie escursioni sono decine i percorsi che devo abbandonare perché i tronchi, in orizzontale anziché in verticale, ostruiscono il passaggio.

Iniziano ora timidamente sull’Appennino Tosco Emiliano i sostegni alla valorizzazione della “risorsa bosco”. La buona gestione delle foreste non significa lasciarle alla mercé della natura, come potrebbero pensare coloro che affrontano il tema natura in modo assoluto. Come se l’azione dell’uomo costituisse sempre il male. Il bosco invece necessita di essere curato, gestito e difeso dall’incuria che porta conseguenze anche in bassa valle.
Il bosco è da secoli luogo di produzione di prodotti e servizi. E dopo una lunga parentesi di decenni di incuria e noncuranza, potrebbe di nuovo tornare utile, rafforzandosi con i nuovi strumenti che abbiamo oggi: la regolamentata gestione forestale, le certificazioni di qualità del bosco. Cerchiamo di sensibilizzare quei decisori che vivono il taglio dell’albero come un atto di sofferenza perché, per loro, Appennino significa natura incontaminata e come tale va lasciata stare. Poi magari però non rinunciano alla pizza cotta nel forno a legna, come se quella legna non provenisse da un qualche bosco collocato chissà dove, in Appennino appunto.
Dobbiamo tornare a renderci conto dell’importanza del bosco sul piano sociale, economico e ambientale, pensando che esso possa essere gestito (e quindi ovviamente questo comprende il taglio degli alberi) in modo da renderlo vivibile, sostenibile ed equo. È realizzabile un’attività di esbosco sostenibile, che sia volano di uno sviluppo economico basato sull’offerta di prodotti (i numerosi prodotti del sottobosco di qualità certificata, ma anche il legno stesso) e di servizi (turismo ambientale, laboratori scolastici, sentieristica, accoglienza turistica…).

Ho scoperto, parlando con gli esperti, che la causa delle frane spesso è l’incuria, non il taglio. Il taglio sconsiderato ovviamente può essere un problema e una causa, ma anche il non-taglio e l’abbandono possono essere causa di cedimenti. Poi basta vedere le foto dei giornali che riportano le disgrazie dopo un’alluvione: quanti tronchi di alberi incastrati sotto i ponti di città. Ci siamo mai chiesti da dove provengono e perché sono finiti lì?
Insomma un’incuria dovuta allo spopolamento causato da questa dannata politica dell’industria avviata nel secondo dopoguerra, svalorizzando il patrimonio contadino e forestale. Un patrimonio agricolo che è alla base della cultura della gran parte del territorio italiano. Oggi la popolazione di montagna in Italia rappresenta una minoranza, rispetto al totale della popolazione nazionale. Il suolo dove abita, invece, ne costituisce la spina dorsale più significativa.
I luoghi dove prima abitava la maggioranza della popolazione, oggi costituiscono un contenitore semi vuoto: le stesse case che ora io sto ammirando in vetrina. Molte in vendita, sono dei veri e propri patrimoni culturali. Come se in città mettessero in vendita l’arco di trionfo, o, che so, i fori. Sono patrimoni veri e propri che, per come sono costruiti e per dove sono collocati, ci raccontano stili di vita, modelli economici che hanno fatto la nostra cultura, che poi, come i rami di un fiume, si è sparsa in tutto il mondo e si è trasformata. Ma ancora tanti dei suoi elementi provengono da lì. Le società contadine definiscono elementi simbolici simili in tutto il mondo e noi lì ci ritroviamo, e li riproduciamo.
Per questo è bello capire come le case, quelle stesse case abbandonate ai bordi del bosco, ai bordi del campo che le spine se le mangiano, sono state concepite. In un preciso orientamento geografico, su un suolo fermo, vicino agli elementi essenziali per la vita, dove c’era il posto per gli animali, per la famiglia, per la lavorazione dei prodotti… e anche per i balli serali. Per le relazioni sociali, per i rifugi durante la guerra, e dove c’era quella strada modesta che le collegava tra loro e che le collegava al di fuori: al bosco, al campo, al mondo.
Simbolicamente stava sempre una maestà, un faccione all’entrata (del borgo, della casa), a indicare il limes preciso ove “il fuori” era benvenuto, ma doveva stare attento a non far male al dentro, all’intimità.
Insomma non riesco a stare concentrata sulla strada. Questi mondi economicamente efficienti e autosufficienti mi creano una curiosità irrefrenabile. E penso e ripenso a quelle case ai margini del campo. E ai margini del bosco, che trasmettono così tanti significati.
Tante sono in luoghi molto accessibili, e ristrutturate oggi diverrebbero dei veri e propri paradisi. Per tutti: per chi scappa dalla città perché non ne può più del traffico e del non sapere da dove arriva il cibo che prende dal frigorifero. Per noi di montagna, che non ci vogliamo togliere di qui perché sappiamo di camminare su un tesoro che deve ancora essere scoperto. E allora facciamo chilometri di macchina, quotidianamente esterrefatti della bellezza mozzafiato in cui viviamo, cercando di non farci distrarre troppo per non finire con le ruote in una cunetta.
C’è un libro di Mario Ferraguti, un bravissimo scrittore di Parma, che si intitola “La voce delle case abbandonate. Piccolo alfabeto del silenzio”, pubblicato da Ediciclo. Leggendolo si può realmente sentire la voce delle case. La voce delle case si sente bene, se si è capaci di ascoltare. Mario parla proprio di questo, ti invita con lui a entrare in quelle case e a vedere la vita che ancora è raffigurata lì dentro. Quella è una vita che costituisce tutti noi. Non dico noi di montagna, ma proprio tutti noi. Perché è da lì che ognuno di noi è partito. Le migliaia di persone partite dalle campagne che hanno costruito le città e le nazioni, in Italia, in Europa e fuori dall’Europa, portando un patrimonio culturale fatto di autosufficienza in sintonia con una natura non trascurata, ma curata, anche se temuta. L’uomo ha la funzione di accompagnarla nella sua crescita, ed è una follia che la tutela del territorio possa essere liquidata con un semplice “lasciamo che la natura faccia il suo corso”.
Da tre anni ormai, si realizza il Piccolo Festival dell’Antropologia della Montagna a Berceto, nell’Appennino Tosco Emiliano. Ed è anche l’unico Festival dell’Antropologia in Italia a trattare di questi temi. Quest’anno si parlerà della casa. “Casa” sia come luogo fisico e architettonico, l’abitazione, sia come luogo simbolico dove ci si sente a proprio agio, con cui si avverte familiarità, nel quale si affondano le radici.
Maria Molinari