Di fronte ai fatti drammatici dell’esodo di profughi e migranti che premono ai confini d’Europa, l’opinione pubblica sembra dividersi tra i “buonisti”, che vogliono accoglierli tutti, e i “cattivisti” che vorrebbero lasciarli naufragare o fermarli con la forza. I “buonisti” mi fanno tenerezza, ma non riescono a vedere il problema nella sua gravità. I “cattivisti” mi fanno semplicemente piuttosto schifo. C’è un problema di emergenza, al quale ogni governo coinvolto cerca di far fronte tamponando le falle, con un occhio alle ripercussioni che ogni mossa potrà avere sul comportamento degli elettori alle prossime scadenze. Leggo che in alcune città tedesche i sindaci hanno fatto un appello alla popolazione affinché chi ha delle case sfitte le metta a disposizione dei profughi e alcuni parroci e pastori hanno attrezzato le chiese per accoglierli. Non dimentichiamo che la Germania dal primo gennaio di quest’anno ha ricevuto cinque volte le domande di asilo dell’Italia. Ma in Germania, salvo frange estremiste finora efficacemente isolate, si ha fiducia sulle proprie capacità di affrontare il problema dell’integrazione, anche al di là dell’emergenza. Anche in Italia, vedi l’appello del vescovo di Torino Nosiglia, qualcosa si muove.
Quello che è sconcertante, invece, è come pochi guardino al di là dell’emergenza, alle strategie da mettere in atto a medio-lungo termine per far fronte al fenomeno. Perché il fenomeno non è destinato ad esaurirsi, ma accompagnerà la vita delle nostre società per decenni a venire. Le guerre del Medio Oriente potranno anche finire (ce lo auguriamo), ma lasceranno delle società devastate dalle quali molti vorranno comunque fuggire e l’Africa resterà ancora per lungo tempo un serbatoio di popolazioni che cercheranno altrove delle chances di vita migliori della fame e della miseria che le aspetta a casa loro. E l’Europa è il continente più vicino, è un continente ricco e, almeno in questa fase storica, ha una popolazione demograficamente in declino. Bisogna quindi pensare fin da ora non solo a come affrontare il problema di quelli che arrivano ogni giorno, ma come possano essere inseriti a medio-lungo termine nella nostra società, al di là di come distribuirli tra i 28 paesi dell’UE. Ce ne sarà per tutti ed ogni paese dovrà pensare a come gestire i propri, di concerto con gli altri.
Per quanto riguarda l’Italia, qualcuno ha avanzato la proposta di dare loro una chance per tentare un parziale ripopolamento delle zone montane abbandonate dalla popolazione autoctona, scesa verso le coste e la pianura. Lo spopolamento delle zone alpine e appenniniche che non sono riuscite a riconvertirsi al turismo è un fenomeno reale ed è, oltretutto, una delle cause del dissesto idro-geologico di ampie zone del territorio. Io vivo in Liguria. Basta inoltrarsi poche decine di chilometri dalla costa che si trovano interi paesi quasi, se non del tutto, disabitati e ad ogni stagione di piogge scendono immancabilmente molte frane che contribuiscono ulteriormente a rendere il territorio inabitabile. L’agricoltura montana è praticamente abbandonata, anche quando potrebbe forse ancora giocare un certo ruolo con produzioni di nicchia di elevato valore aggiunto (penso, nel caso ligure, alla vite, all’ulivo, ai frutti di bosco). Ma non c’è più nessuno che voglia lavorare la terra e, soprattutto, mantenere quella rete minuta di manufatti (terrazzamenti, scoli delle acque, ecc.) che rendono possibili le colture e proteggono dall’erosione. In questi luoghi ci sono moltissime abitazioni vuote e abbandonate, alcune irrimediabilmente diroccate, altre facilmente restaurabili che potrebbero accogliere una popolazione, soprattutto famiglie, che, opportunamente addestrata e organizzata, garantirebbe una parziale rinascita di territori altrimenti destinati al degrado.

E’ facile immaginare le difficoltà, gli ostacoli e le resistenze che una proposta del genere incontrerebbe nel suo cammino. Ho una certa famigliarità con il mondo della montagna per non sapere che è difficile integrare degli estranei nelle comunità autoctone. E poi le abitazioni, ancorché abbandonate, e i terreni hanno pur sempre ancora dei proprietari che in qualche modo dovrebbero essere coinvolti, convinti e probabilmente incentivati. E tra gli immigrati non tutti sarebbero adatti a questo tipo di attività e probabilmente alcuni si rifiuterebbero di impegnarsi nel progetto. Un amico demografo mi ricorda che alla fine della guerra diversi contadini meridionali sono emigrati nell’Appennino settentrionale su terre ormai abbandonate. Nell’Appennino toscano ci sono insediamenti di albanesi che da ormai più di dieci anni hanno trovato lì casa e lavoro. Mi piacerebbe sapere se qualcuno ha studiato queste esperienze.
Insomma, può essere una bella idea, ma difficilmente realizzabile. Però, ci sono due problemi di fronte ai quali non ci si può tirare indietro: la presenza di flussi cospicui di immigrati che si può prevedere fin d’ora non potrà essere interrotta, da un lato, e il degrado-dissesto di gran parte del territorio italiano dalle Alpi alla Sicilia, dall’altro lato. La proposta merita almeno di essere valutata nella sua fattibilità. Bisognerebbe incaricare un gruppo di lavoro in cui devono essere presenti agronomi, demografi, economisti, geografi, geologi, giuristi e forse anche qualche sociologo che studia le aree interne e le migrazioni, dare loro un tempo definito (sei mesi, un anno ?) per venir fuori con una valutazione dei costi e dei benefici, naturalmente non solo economici, di una progetto lungo questa linea. Credo che possa valerne la pena.
Alessandro Cavalli, sociologo Università di Pavia