Negli ultimi anni si fa un gran parlare di “turismo responsabile”, o “esperienziale”, o “dolce” come possibile risorsa sostenibile per rivitalizzare i territori montani. Sono ormai quasi tutti d’accordo, chi in quelle valli vive e chi ci va per trovare “l’altrove”, che il “turismo che porta inevitabilmente alla realizzazione delle cosiddette ‘città in montagna’ – come ha scritto il professor Giorgio Daidola su Dislivelli.eu di giugno di quest’anno – e che fa venir meno la qualità prima dell’esperienza turistica: la qualità emozionale”, ha ormai i giorni contati. Il modello della “città in montagna” è diventato un vecchio disegno di “fruizione” delle terre alte ormai superato che promuoveva “una strategia folle – continua il professor Daidola nell’articolo – che sembra aver dimenticato il principio fondamentale che è il turismo a doversi adattare all’ambiente e non viceversa”.
Ma chi è allora questo rinnovato ed evoluto “homo turisticus” di cui tanto si fantastica? Forse non più quello definito dall’antropologo Duccio Canestrini come un individuo “con relativa disponibilità di denaro che parte verso luoghi lontani da casa per tornare presto alla routine quotidiana”. Forse oggi è una figura che potrebbe ritrovarsi persino nella descrizione del viaggio di Marcel Proust: “Il vero viaggio di ricerca non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Difficile dirlo con sicurezza, difficile generalizzare. L’“homo turisticus” è sfuggente, su di lui mancano studi approfonditi, statistiche e racconti che possano inquadrarlo, e le uniche definizioni, per ora, si limitano a segnalare quello che non è un “turista dolce”. E allora non resta che chiederlo a Luoghi e Satelliti della rete Sweet Mountains, che grazie alle sue oltre 300 realtà coinvolte oggi è il soggetto forse più indicato per tentarne una definizione.


Ne abbiamo discusso con i Custodi della montagna, che lavorano insieme quotidianamente per fare “massa critica” promuovendo e dando dignità alla nascente e promettente forma di turismo dolce sulle Alpi, e che conoscono bene i loro ospiti, dal momento che li accolgono, li coccolano e ci vivono accanto quotidianamente. Lo abbiamo fatto nel corso del lungo viaggio realizzato assieme agli amici di Rbe, e ora siamo in grado, per la prima volta in assoluto, di raccontarvelo, di svelare chi è, da dove arriva, cosa cerca e cosa trova il turista alpino del XXI secolo.
Partiamo dal Rifugio Selleries in Val Chisone, dove i gestori Sylvie e Massimo ci hanno raccontato della grossa trasformazione dei loro ospiti degli ultimi dieci anni: «Quando siamo arrivati sembrava di lavorare ad un autogrill – ricorda Massimo condividendo un sorriso con la compagna Sylvie -. I clienti arrivavano, posteggiavano l’auto fuori, si sedevano al tavolo e finito il pasto ripartivano per scendere a valle. Ora invece è tutto cambiato». Grazie anche a un grosso lavoro di educazione alla montagna, portato avanti dal Rifugio Selleries con l’aiuto di guide e accompagnatori naturalistici, con i clienti abituali e con le scuole. Oggi il cliente si è trasformato in ospite, che sale d’inverno a piedi da Pracatinat, con le ciaspole o con sci e pelli, e d’estate fa una breve sosta all’interno del rifugio per rifocillarsi, ma poi via, fuori, a esplorare i dintorni, fotografare piante e fiori, a inseguire gli animali del Parco Regionale Orsiera Rocciavré con il binocolo. «Da un turismo mordi e fuggi in auto, la domenica, a mangiar polenta – continua Massimo – si è passati a un turismo che vuole altro, curioso, in cerca di emozioni. Né polentari ma nemmeno pistaioli, perché chi cammina, ciaspola e fa sci alpinismo ha fatto delle scelte ben precise, e oramai esistono categorie differenti».
Anche Natalia e Ferruccio, del Rifugio Fontana del Thures, in alta Val di Susa, confermano la differenza tra “i turisti”. Loro pur essendo a pochi chilometri dalla stazione sciistica di Sestriere di pistaioli ne vedono pochi. Qualcuno arriva trasformato per l’occasione in sci alpinista, e anche questo succede sempre più spesso, ma il grosso degli ospiti invernali, la stagione in cui lavorano di più, circa l’80% del loro business complessivo, sono persone che fanno sci nordico, sci alpinismo e naturalmente percorsi in ciaspole. «D’inverno lavoriamo tanto con i francesi – racconta Natalia – che arrivano da noi attraverso agenzie specializzate d’oltralpe che gli organizzano il tour, con tanto di guida. E fanno collegamenti con altri rifugi della valle o delle valli limitrofe. D’estate con escursionisti o muntainbikers del nord Europa, tedeschi e olandesi». Non mancano anche le famiglie italiane, che rimangono due o tre giorni: un giorno per ciaspolare, un altro per portare i figli al parco avventura di Mollieres e magari il terzo, perché no, per andare a sciare in pista. «Ma la settimana bianca classica – assicura Ferruccio – ormai non esiste più».
Anche Elisa, della Foresteria valdese di Torre Pellice, in Val Pellice, lavora tanto con gli stranieri: «Arrivano ospiti da tutto il mondo – racconta – dall’Uruguay, all’Argentina, per visitare i luoghi delle loro radici familiari o per approfondire la storia e cultura valdese». E solitamente restano in Italia a lungo, per visitare Venezia, Roma e le bellezze italiche. Ma non mancano mai di passare un periodo tra le montagne Piemontesi. «Spesso vorrebbero anche visitare l’alta valle – continua Elisa – ma mancano i collegamenti e sono costretti a desistere».
Chi in alta valle lavora, come Roby Boulard del Rifugio Willy Jervis, conosce bene il problema: «Perché da noi i turisti che arrivano a piedi dal Queyras ci chiedono spesso di poter di andare in bassa valle. Per riposarsi qualche giorno e visitare i luoghi valdesi. Se riusciamo li accompagniamo noi, ma il più delle volte siamo costretti a dirgli che non è possibile». Roby lavora in alta Val Pellice da 30 anni, è guida alpina e gestore, da sempre, sempre nello stesso posto. Ha conservato un articolo del 1930 in cui si parlava della Conca del Pra come luogo di villeggiatura e ce lo mostra. «Quella era la clientela di allora, famiglie che salivano per restare un mese e più in alta quota – racconta -. Poi verso la fine degli anni ’70 è cambiato tutto. È partita la Gta francese e gli ospiti sono cominciati ad arrivare dal Queyras. E più cresceva la fama della Grande Randonnée e più arrivava gente, anche da paesi lontani come Olanda, Germania, Inghilterra e Belgio». Nel 1985 uno sci alpinista belga si innamora della Conca del Pra e del rifugio Jevis. Diventa guida alpina in Val Pellice e socio di Roby. I due cominciano a fidelizzarsi una clientela di ospiti provenienti dal paese del nord, e oggi, grazie a questo legame, la loro clientela è belga per l’85%. «Vendere periodi organizzati – continua Roby – unendo la guida al rifugio è stata una strategia vincente. Perché la gente comincia ad avere voglia di vivere la montagna in modo diverso, a 360 gradi, anche d’inverno. Persino il pistaiolo che passava il weekend sugli impianti senza sapere cosa c’era intorno oggi è diventato un cliente più esigente, vuole sapere, conoscere, spesso mette le pelli ed esce fuori, cerca l’avventura».

Anche Silvia del Rifugio Galaberna di Ostana, in Valle Po, rivendica il buon lavoro fatto con gli stranieri, come gli sci alpinisti svizzeri e francesi che tornano ormai tutti gli anni. Certo la Valle Po non è “famosa” per gli stranieri come la Val Maira o le zone vicino al Queyras, ci ricorda, eppure «quando arrivano poi si innamorano del luogo, del Monviso che svetta sopra le loro teste. E apprezzano in particolar modo la nostra accoglienza, la vitalità del borgo e la vita di comunità che è ripartita da qualche anno a Ostana». Seduti ai tavolini del Galaberna capita infatti di sentire una babele di lingue straniere accanto alle coppie anziane in cerca di tranquillità che parlano occitano, a famiglie italiane che pascolano i bambini, e ai figli dei possessori di seconde case che cominciano a tornare, nei weekend, riaprendo case ormai chiuse da anni. «Perché l’idea di avere un locale sempre aperto – racconta Silvia – li ha riportati in paese. E li ha aiutati a vincere l’iniziale diffidenza nei confronti del turista che viene da fuori».
Parlando di Val Maira non si può non citare uno dei locali ormai più famosi della valle, Lou Pitavin di Marmora, dove Marco e Valeria hanno adottato una strategia vincente per coccolarsi i loro ospiti: promozione delle attività outdoor di qualità fatta di bei sentieri, piste mtb, itinerari di scialpinismo tracciati ecc. per la clientela straniera, e buona cucina per quella italiana. «Abbiamo una gamma di ospiti molto variegata – racconta Marco – dal turista slow a quello più temerario. In inverno sono principalmente sci alpinisti e ciaspolatori, d’estate escursionisti e mountainbikers. Ma il connubbio cura del territorio e buona cucina ci permette di tenerceli tutti stretti, temerari o meno, italiani e stranieri. Perché alla fine il segreto sta nel fatto che se l’ospite viene trattato bene poi ritorna».
Come tornano, tutti gli anni, gli ospiti della casa vacanze La Peiro Douço di Roure, in Val Chisone, grazie all’ottima accoglienza da parte di Daniela e delle sue due sorelle: «negli ultimi anni grazie al lavoro di promozione e ai tour operator stranieri che ci hanno scoperto arrivano anche ospiti tedeschi, svizzeri e olandesi – racconta Daniela -. Sono attirati da famosi richiami come il Forte di Exilles o dalla strada dell’Assietta, famosa tra i motociclisti tedeschi. Ma poi una volta qui girano e scoprono altre mille cose interessanti di cui ignoravano l’esistenza: dai vini di Pomaretto alla cultura valdese a Scopriminiera. E si organizzano per tornare almeno una volta durante l’anno per vedere quello che avevano lasciato indietro». Non mancano poi gli ospiti italiani, che oltre a Torino arrivano da Lombardia, Toscana e Lazio nel periodo invernale. Per alternare lo sci in pista di alta valle alla visita dei luoghi interessanti della media e bassa Val Chisone: un po’ per interrompere la monotonia della pista, un po’ per risparmiare sul giornaliero.
A Casa Payer, nei boschi di Luserna San Giovanni, in Val Pellice, Luca e Paola ci raccontano di un cambiamento epocale avvenuto intorno al 2009, quando sono venuti meno i viaggiatori e turisti abituali a causa della crisi economica e sono tornati i possessori di seconde case. Più una serie di nuovi arrivi estemporanei, incuriositi dalle attività fatte nella struttura e dalla natura selvaggia intorno. «Per i nostri ospiti è importante poter scoprire il territorio – racconta Luca – ognuno con i suoi tempi e modi. C’è chi cammina, che ci aiuta nell’orto e chi non scende nemmeno dal terrazzo della sua stanza restando a prendere il sole e guardando la natura dall’alto». Poi ci sono gli stranieri, tedeschi e americani, che si entusiasmano del luogo, vagano per i boschi e fanno i tuffi nel Chiamogna; i musicisti che vengono a cantare e suonare indisturbati; i gruppi yoga che fanno esercizi nei prati o nella sala polivalente a disposizione; e nei weekend si accende il forno a legna, esterno, ed escono pane e pizze a ripetizione: chi arriva lascia un contributo, si siede dove riesce e socializza mangiando. «Bisogna portare il cittadino a conoscenza di questo tipo di esperienze – spiega Luca – in qualche modo dobbiamo fare cultura, un po’ come un tripadvisor al contrario».
In Val Germanasca infine ci sono due luoghi nati per clientele differenti: la Foresteria di Massello gestita da Loredana, e l’agriturismo Edelweiss in borgata Pomieri di Giuliano. Mentre il primo si trova in un vallone laterale selvaggio e incontaminato, il secondo è a due passi dalle conosciute piste di sci da discesa di Parli. Eppure tutti e due lavorano, e bene, grazie anche alle nuove forme di turismo. «Sono arrivata a Massello dalla Valtellina – racconta Loredana – che non avevo nemmeno un cliente. Ma grazie alla nostra accoglienza di qualità, alle bellezze intorno, e alla valorizzazione di cose uniche come la Gta o i Sentieri valdesi, oggi in estate abbiamo una discreta clientela straniera di tedeschi, svizzeri e francesi ormai affezionati. In inverno e nelle mezze stagioni lavoriamo a pranzo con gli operai della zona e nei weekend con le famiglie, a cui non facciamo pagare per i costi dei bambini». Situazione molto diversa quella di Prali, dove le piste rappresentano ancora il “core business” dell’impresa turistica. Eppure anche qui nuovi turisti crescono, per supplire al calo degli introiti invernali: «Abbiamo ancora una serie di sci club che vengono da noi per allenarsi sulle piste – racconta Giuliano -. Ma cominciano ad arrivare anche altri tipi di ospiti, interessati alla tranquillità e alle passeggiate». L’Edelweiss è sempre aperto, tutto l’anno. Partendo dalla stagione invernale, da dicembre a marzo, ci sono gli sciatori; poi da aprile a giugno è la stagione più scarsa, con qualche straniero: a luglio riprendono i soggiorni e per due mesi è tutto completo, sempre, tra camminatori, mountainbikers e coppie di persone di una certa età in cerca di fresco e tranquillità; da settembre a novembre infine cominciano i weekend dei cacciatori, gruppi che arrivano dalla Valtellina, dal comasco o dalla Liguria a cercare selvaggina sulle Alpi. Una clientela sempre più variegata e spalmata lungo l’arco di tutto l’anno, attenta alla buona accoglienza, alla natura, alla cultura e alla buona cucina.
Maurizio Dematteis

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