Un anno fa abbiamo curato un dossier sullo sci di massa, il fenomeno più eversivo della tradizione alpina recente, ormai tradizione esso stesso ma fortemente penalizzato dai costi astronomici dell’energia che crea la neve e fa girare gli impianti, da un certo disincanto dei praticanti e dalla necessità di dipendere sempre più dai sovvenzionamenti pubblici, dunque anche dalle tasche dei cittadini che non sciano.
Per essere costruttivi cerchiamo ora di vagliare le potenzialità di ciò che è inverno senza sci, o meglio senza la dipendenza dai cavi e dai motori. In altre parole quegli sport invernali che si praticano con sudore e passione, e che da sempre rappresentano l’alternativa di nicchia allo sci di massa. Possibilità sempre meno elitaria e sempre più necessaria.
Una volta le pelli di foca erano il retaggio di un mondo senza impianti di risalita, una vecchia pratica riservata agli alpinisti duri e puri, strano modo di intendere lo sci: per salire le montagne. La discesa veniva dopo. Oggi lo scialpinismo è ringiovanito di cent’anni, come risciacquato alla fontana della giovinezza. È sport non per matusa ma per giovani di ogni età, prevede attrezzi leggeri e aggressivi, si pratica in gioiose compagnie e vanta un’avanguardia agonistica (le “tutine”) che spinge tutto il reparto degli amatori, svecchiando l’immagine e incrementando il numero e le aspirazioni dei praticanti. L’altro fenomeno in netta crescita è quello delle ciaspole, che quando si chiamavano racchette da neve o “fagioli” erano etichettate peggio dello scialpinismo, sport per anzianotti che ignorano il bello della vita e il brivido della discesa, ma oggi sono ampiamente sdoganate dalla tecnologia, dalla moda e dalla crisi, e consentono a migliaia di escursionisti di godere la montagna invernale. Con le ciaspole non si scivola, è vero, ma si entra in semplicità nel magico mondo della neve.

Ormai, come spiega Daria Rabbia più avanti, il distacco tra lo sci di discesa e le altre attività sportive invernali non è più così rilevante da eludere una riflessione seria. Non siamo più al gigante davanti ai nani, piuttosto a un’industria solida, strutturata, problematica e molto costosa che si confronta – o meglio: si affianca – a pratiche assai più flessibili dal punto di vista economico ed ecologico, e dai numeri per niente secondari. I 480.000 mila “ciaspolatori” sono ancora lontani dai numeri dello sci di discesa ma non da quelli dello snowboard (495.000 “boarders”) e «l’escursionismo su neve è la terza disciplina più praticata nella stagione invernale, ma anche quella che, con lo scialpinismo, continua a destare entusiasmo e interesse anche diversi anni dopo l’esplosione del fenomeno». Insomma continua a crescere. All’escursionismo con le ciaspole e con gli sci vanno aggiunti i numeri tutt’altro che trascurabili dello sci di fondo, nobile disciplina che in Italia è spesso diventata il parente “povero” dello sci di discesa (il fondo ha comunque dei costi di gestione delle piste, e non sono indifferenti) e altre attività in crescita come le cascate di ghiaccio, che portano benefici a costo zero alle località, per esempio Cogne, che considerano gli scalatori del ghiaccio dei turisti da rispettare. Senza considerare il mercato degli attrezzi, che di per sé crea fatturato e posti di lavoro.

Dunque sorgono due urgenze, di ordine culturale e strategico. La prima consiste nel guardare alle “attività senza cavi” come a discipline importanti e degne di attenzione, senza relegarle – come fanno i mezzi di informazione nazionale, i centri di potere regionale e le grandi stazioni turistiche – alla periferia del turismo alpino invernale. In futuro potrebbero anche diventarne il centro, e comunque rappresentano già oggi l’indispensabile complemento a un’offerta che – come hanno imparato tutti i paesi alpini confinanti – non può più reggere sulla monocultura dello sci e delle seconde case. Anche se è sempre difficile cambiare idea, bisogna accettare l’evidenza: è maturato un turismo alternativo dai rilevanti numeri e dalle grandi potenzialità, basato su nuovi turisti e nuove domande. La maggioranza dei visitatori delle Alpi non vuole più essere paracadutata in quota come in un “non luogo” qualsiasi, ma vuole capire e decifrare il luogo delle proprie vacanze, per cogliere scampoli di verità e bellezza, e soprattutto di “naturalità”, dietro il sipario asettico dell’apparato turistico.
La seconda urgenza consiste nell’adattare le stazioni invernali ai turisti “leggeri”, che certo non frequentano i grandi alberghi e non sono interessati alla vita mondana, ma apprezzano moltissimo l’ospitalità rustica (che non vuol dire sgraziata) e il cibo locale ben servito, come avviene per esempio nelle locande occitane della Val Maira predilette dalle guide altoatesine. Paradossalmente i grandi centri e le grandi infrastrutture sono i meno preparati a questo salto culturale, perché hanno puntato troppo sul modello unico e oggi stentano a diversificare l’offerta e l’accoglienza.
“Diversificare” è una parola tecnica e bruttissima. Sarebbe meglio dire “rispettare”, nel senso che ogni turista è una persona e ogni persona ha un diritto. I maghi del marketing possono inventare le strategie di vendita, ma non possono piegare le passioni della gente. Non più.
Enrico Camanni