Spesso i Custodi della montagna sono nuovi abitanti, o anche nativi, che riescono a vedere una prospettiva di vita e lavoro in luoghi per anni interessati dall’abbandono. Le piccole borgate in cui i Custodi si trovano a vivere e lavorare molte volte sono luoghi che hanno perso quell’equilibrio tra vita in montagna, socialità e corretto rapporto con l’ambiente circostante che per anni ha caratterizzato le piccole comunità alpine. C’è bisogno di ricostruire i legami, recuperare feste e riti, spesso reinventarsi le opportunità di socializzazione. Ma tutto questo non si può realizzare senza l’appoggio e la collaborazione dei residenti, spesso pochi, anziani se non addirittura villeggianti che pur vivendo in città hanno mantenuto vive le radici nel paesino d’origine. Un lavoro certo non facile, come spiega bene il film di Giorgio Diritti e Fredo Valla “Il vento fa il suo giro”, ma comunque possibile, come racconta Silvia Rovere del rifugio Galaberna di Ostana, in Valle Po, proprio la borgata dove si è svolta la vera storia del nuovo insediato raccontata dal film: «chi ha la seconda casa ed era originario di qui è il più duro da convincere; sono quelli che meno accettano che ci sia qualcuno in più che vive in paese o che possa arrivare anche il nuovo turista. Però ci siamo messi di buona lena, e anche loro oggi sanno che c’è un posto dove andare a mangiare, e vedono che anche i figli con nipoti tornano di nuovo a Ostana, perché qui non ci si annoia più». I villeggianti originari, i più duri da abituare al cambiamento, oggi riescono persino a digerire la nuova struttura coperta realizzata all’ingresso del paese per feste e manifestazioni, quella che proprio non gli piaceva per nulla, perché in cambio hanno parte della famiglia che torna tutte le estati in un posto che prima non era più adatto ai quarantenni con bambini, e cercavano altri posti, magari lungo la riviera ligure. Ma tutto questo, spiega Silvia, è anche il frutto di un lento e faticoso lavoro di ricucitura di una nuova socialità realizzata grazie all’impegno di tutti, residenti, villeggianti e amministrazione comunale. «Mi ha aiutato molto in questo lavoro di ricucitura l’aver girato il mondo – spiga Silvia -. Quando vivi per un po’ lontano da casa tua impari a essere molto diplomatico. Impari a sentire quello che ti succede attorno. Ho lavorato in un’equipe con ricercatori egiziani, ho lavorato in Algeria. Qui non ci sono gli algerini, ma persone di 80 anni che hanno dovuto emigrare perché la montagna non gli offriva più niente, hanno vissuto delle esperienze forti, e nonostante questo hanno sempre continuato a mantenere forti radici, amicizie e legami qui a Ostana. E a un certo punto arrivo io, da Torino, e apro un rifugio in cui non c’è una sedia dello stesso colore dell’altra. Io capisco lo shock. E non è tanto per il colore della sedia quanto perché si tratta di un cambiamento grosso nel paese».
Una grande capacità di ascolto e la disponibilità a mettersi in gioco, quindi. Ma a volte, come ci racconta Giorgio Alifredi dell’Azienda Agricola Lo Puy, in borgata Poggio di San Damiano Macra, Val Maira, tutto questo non basta se non viene accompagnato dalla pazienza di attendere che questi complessi processi di socializzazione maturino. E a volte ci vogliono anni: «a me era sempre piaciuta la pastorizia e mi piacevano i formaggi di capra francesi. Ci siamo orientati sulle capre perché sono gli animali più accessibili dal punto di vista economico e perché è l’unica bestia che può essere tenuta qui al Podio». All’inizio Giorgio veniva visto come un tipo stravagante, qualcuno pensava fosse un visionario, mantenuto dalla povera moglie medico di base del paese. Anche perché le capre, oltretutto, erano sempre state considerate gli animali dei poveri, e questi “cittadini” si permettono di arrivare dove tutti gli altri hanno mollato? E cosa credono di fare?
«Quando siamo arrivati la borgata era disabitata, c’erano solo più due residenti in estate. Adesso, dopo vent’anni, siamo partiti con l’allevamento di capre, abbiamo messo su un caseificio per lavorare il latte, e pian piano abbiamo iniziato a portare nuove energie e interesse. Da quello è nato il laboratorio di ceramica gestito da un’altra famiglia che è venuta a stare qui, abbiamo aperto l’agriturismo nostro per gli ospiti e infine abbiamo vinto il Progetto borgate del Psr regionale e siamo riusciti a recuperare l’intero centro del villaggio, e ogni privato ha potuto ristrutturare la propria casa con l’aiuto dei fondi comunitari. Ora anche noi stiamo ristrutturando casa nostra, in centro paese. I problemi iniziali dei rapporti con residenti e villeggianti oggi sono stati superati e il Poggio di San Damiano oggi è una realtà che ha superato il punto di non ritorno».
E se qualcuno ormai ce l’ha fatta, altri Custodi sono ancora nel bel mezzo della battaglia quotidiana per non far spegnere la flebile fiammella di una socialità che resiste. Come Ferruccio e Natalia Colavita, del rifugio La Fontana del Thures, in Val di Susa, che raccontano così la loro esperienza: «una volta qui vivevano 800 persone, ma oggi siamo rimasti in pochi, appena una dozzina di residenti. Oggi è tutto molto dispersivo e a Thures non c’è più un grande senso di comunità. C’è ad esempio un forno comunitario molto bello nella borgata, che non viene più acceso da anni. In altre borgate di valli minori si è conservata ad esempio l’usanza di fare le corvé, i lavori di manutenzione degli spazi comuni tutti insieme. Qui a Thures questo non esiste più. Perché in alta Val di Susa quasi nessuno ha continuato a promuovere questa dimensione. Anche le istituzioni locali hanno puntato su altro, non sul come poter rimanere a vivere in borgata, ma piuttosto sulla speculazione edilizia delle seconde case. E meno male che qui a Thures abbiamo un problema idrogeologico che ha bloccato l’edificazione, altrimenti anche qui oggi ci sarebbero solo più condomini e seconde case».
Eppure dove una certa socialità è ancora ben sviluppata, o dove si è riformata grazie al fenomeno recente dei “nuovi montanari”, i Custodi della montagna vengono accolti con entusiasmo dal territorio. Come nel caso di Casa Payer, dove Paola Sandroni e Luca Ferrero Regis hanno aperto il B&B Casa Payer, in Val Pellice: «abbiamo avuto un’accoglienza bellissima. I primi giorni che ci siamo trasferiti in valle eravamo fuori a fare lavori di pulizia nei boschi e siamo stati subito avvicinati dalle persone del posto che ci hanno addirittura organizzato una festa di accoglienza nell’osservatorio astronomico. Siamo stati talmente ben accolti che abbiamo detto ad altri amici in cerca di casa di venire anche loro in valle». Poi c’è il problema di portare avanti l’attività commerciale, e allora anche qui in Val Pellice la possibilità di poter lavorare in rete con altre strutture di accoglienza rivolte a un tipo di turismo dolce è tutt’altro che semplice. «Il lavoro di rete in valle è lungo e faticoso – spiega Luca -. Stiamo facendo di tutto per creare una rete con chi lavora nel turismo sostenibile in valle. La Val Pellice ha delle buone carte da giocarsi in questo settore perché non è stata troppo danneggiata negli anni ’70 dal punto di vista architettonico ed ha una forte componente di cultura valdese che ha concorso a farla rimanere viva».
Dello stesso parere è Elisa Charbonnier, che gestisce la Foresteria Valdese di Torre Pellice, che spiega: «la difficoltà nel fare sinergia è un discorso che sta a monte. Non è tanto la mancanza di rete quanto una cultura del turismo che in Val Pellice comincia a svilupparsi solo ora. Rispetto ad altri luoghi tipo il Trentino, solo per fare un esempio, noi cominciamo adesso e siamo molto indietro. Perché se in valle una volta l’interesse verso l’economia del turismo passava in secondo piano rispetto a quello per l’industria, oggi i rapporti sono cambiati. Ma siamo ancora carenti per quanto riguarda una cultura del turismo».
Nella valle a fianco Silvie e Massimo Manavella, del rifugio Selleries in Val Chisone, registrano un altro problema nel fare rete e promuovere la loro attività turistica: «si tratta del carattere individualista dei piemontesi. Questa nostra caratteristica è il freno a un lavoro che è importantissimo. C’è grossa difficoltà a fare rete, io e i miei colleghi rifugisti fatichiamo a pensare che l’altra struttura all’interno della rete non ci freghi i clienti. In realtà questi pensieri sono perdenti e sbagliati. E lo vediamo anche sul turismo mordi e fuggi del sabato e domenica o del vai e vieni in giornata. L’atteggiamento individualistico non funziona, perché un giorno vengono a mangiare da me e il giorno dopo da un’altra parte. E se gli si offre una buona rete, di qualità e coesa i clienti sono ben contenti di poter cambiare, e ci si scambiano gli ospiti. Ma facciamo ancora fatica a capirlo».
Maurizio Dematteis