Paolo Cognetti, il famoso scrittore, è anche l’ideatore del Festival “Il richiamo della foresta”, che da anni organizza con l’associazione Gli Urogalli a Estoul, in Val d’Ayas. Cognetti è anche un ambasciatore dell’incontro tra cultura e montagna, una relazione spesso difficile a causa della mancanza di reti sociali e culturali sui territori. Abbiamo chiesto all’Associazione Gli Urogalli di raccontarci la storia della loro avventura.
Secondo la vostra esperienza, come si può costruire una rete sociale e culturale dal basso sulle Alpi?
L’assenza di una rete sociale e culturale è un problema del nostro tempo, accade in città come in montagna. Sicuramente in montagna è aggravata dallo spopolamento e dalla mancanza di risorse economiche. Ma noi non ci siamo perso d’animo, abbiamo fondato un’associazione culturale in montagna, a Estoul, e ci abbiamo portato un festival perché questo è un luogo in cui ci piace stare, e ci è venuto naturale elaborare dei progetti qui. Contemporaneamente però portiamo avanti progetti, e continueremo a farlo, anche in città. Per cui la risposta potrebbe essere che la montagna ha bisogno di gente molto appassionata, molto entusiasta, ma anche molto capace, che abbia voglia di portare il suo lavoro culturale e sociale su.
Cosa significa per voi dell’Associazione Urogalli la parola cultura?
È senz’altro un’educazione necessaria, e noi cerchiamo di portare cinema, teatro, musica, libri anche in montagna. Non siamo dell’idea che al cinema o in libreria si vada solo in città, mentre in montagna si possa solo camminare nel bosco. Pensiamo che un ragazzo di montagna oggi usi gli stessi strumenti, riceva gli stessi stimoli, e abbia gli stessi bisogni culturali di un ragazzo di città. Allo stesso tempo sappiamo quanto sia importante parlare di quello che abbiamo intorno, e proviamo a essere un veicolo di conoscenza del territorio. Magari a Milano parleremmo di periferie e di integrazione, invece a Estoul facciamo tavole rotonde sui boschi, sui ghiacciai, sul ritorno dei lupi, che sulle Alpi oggi sono come gli stranieri a Milano.
Come nasce l’idea di fare un festival a Estoul?
E’ molto semplice: il nostro gruppo di amici si era formato in città, intorno a un circolo culturale d’ispirazione libertaria. Da soli o insieme abbiamo avuto diverse esperienze in progetti culturali. Poi uno di noi, lo scrittore Paolo Cognetti, è venuto a stare a Estoul. Altri hanno cominciato a frequentare questo posto e ad affezionarcisi, e da qui è nata l’idea del festival. C’è un senso di responsabilità che forse ci viene dalle periferie urbane, per cui il luogo che abiti è anche quello in cui porti le tue energie, i tuoi progetti, e che cerchi di rendere migliore.
Cosa porta al territorio un festival di questo genere?
Molto biecamente diremmo: gente e visibilità. Noi vorremmo portare anche qualcosa di interessante per la gente che ci abita. Estoul ha solo una decina di residenti, ma in Val d’Ayas, nel giro di trenta chilometri, vivono migliaia di persone. In questo facciamo fatica. Gli abitanti della valle partecipano poco. Abbiamo molto più successo con la gente che viene su dalla pianura, da Milano, Torino, Genova e tutto il nord-ovest, gente che scopre questo posto, si ferma per qualche giorno e certe volte ci torna, per cui diremmo che portiamo a Estoul soprattutto turismo. Che comunque è una risorsa preziosa.
In che modo viene coinvolto il territorio?
Al momento, poco e male. Con il Comune di Brusson collaboriamo benissimo, ma questa è una collaborazione logistica che non coinvolge davvero il territorio. Un passo in questo senso è stato, nella prima edizione, coinvolgere la Proloco, composta da tanti ragazzi del paese che prestano lavoro gratuito per gli eventi pubblici a Brusson. L’idea era che noi avremmo pensato all’organizzazione del festival, loro al bar e al ristoro, e che piano piano, in questo modo, avremmo potuto conoscerci meglio e mescolarci, magari fino a fare le cose insieme. Non è andata così. Alla terza edizione dobbiamo purtroppo ammettere che gli abitanti della valle sono coinvolti pochissimo. Chi ci aiuta e ci sostiene sono spesso cittadini che abitano qui o ci vengono in vacanza, con qualche eccezione.
C’è stata un’evoluzione nel rapporto col territorio?
Il territorio nel senso istituzionale ci ha sempre sostenuti. La Regione Valle d’Aosta, il Comune di Brusson e uno sponsor privato, la distilleria St. Roch, non ci hanno mai fatto mancare il loro appoggio. Questo è stato fondamentale ed è doveroso dirlo, perché senza di loro non saremmo mai partiti. Invece, l’evoluzione del rapporto con gli abitanti della valle è stata piuttosto un’involuzione: la prima volta sono venuti a vedere, poi pian piano si sono fatti sospettosi, e infine li abbiamo in gran parte persi. Certo è stata colpa nostra, ma è anche colpa di una drammatica distanza culturale per cui facciamo una tremenda fatica a comunicare con chi abita qui.
Quale tipo di “montagna” propone il Festival?
Una montagna contemporanea, problematica, abbandonata da una parte e dall’altra urbanizzata, la montagna del turismo di massa e del ritorno dei lupi, degli ultimi montanari che ancora vanno in alpeggio col bestiame, dei nuovi montanari che provano a venirci ad abitare e a inventarsi una vita qui. Un territorio molto complesso che cerchiamo di raccontare come un luogo vissuto, un luogo del presente. Spesso le alte terre sono raccontate come la montagna del passato, e questo ci mette un po’ di tristezza. Ci interessa di più chi ci vive ora.
Ornella Lo Surdo
Molti festival in montagna così come di altre aree marginali esprimono (più o meno inconsapevolmente) un intento colonizzatore. Intellettuali di città, abitanti vacanzieri di queste aree, appassionati senza un’esperienza diretta di vita in montagna, occupano il territorio e se ne fanno interpreti.