Di questa mia isola dicono sia terra di contraddizioni. Io che la amo profondamente, tanto profondamente quanto a volte riesco ad odiarla, preferisco pensarla come l’isola degli ossimori. Come si sa l’ossimoro è una figura retorica consistente nell’accostare nella medesima locuzione parole che esprimono concetti contrari. Per quanto mi riguarda la definizione potrebbe essere il paradigma della mia terra: un luogo nel quale non esistono cose che dovrebbero esserci, e ci sono contemporaneamente cose che non dovrebbero esistere.

Sarei nato l’anno successivo a quel 1962 in cui sulle Madonie (i monti più alti della Sicilia se si esclude il Vulcano) nascevano i primi impianti di risalita che avrebbero fatto di Piano Battaglia (è questo il toponimo della zona che nel tempo si dimostrerà quanto mai pertinente alla storia recente del luogo) l’unica stazione sciistica della Sicilia occidentale. Sul Vulcano avevano già cominciato con la prima funivia nel 1953, nascita che qualcuno celebrerà con le seguenti parole: «la storia della Funivia dell’Etna comincia nel 1953, costruita coraggiosamente sul vulcano attivo più alto d’Europa». E lì, per forza di cose, si entra in relazione con un’altra caratteristica tipica questa volta non della Sicilia ma del siciliano: un modo di esprimersi, un interloquire ibrido e difficilmente decodificabile da parte di “estranei” che porta a chiedersi: “ma parla sul serio o scherza? Sta ironizzando oppure è perfettamente consapevole di quello che dice?”. Anche perché, proprio in questo caso, la “coraggiosa costruzione” avrebbe portato negli anni il Vulcano (che di lavoro nella sua vita fa appunto il vulcano) a distruggere i “coraggiosi impianti di risalita” per ben cinque volte dal 1977 al 2002, impianti ogni volta ricostruiti con costi, anche sociali, altissimi in quello che Legambiente, nel suo report “NeveDiversa”, ha definito come vero e proprio “accanimento terapeutico”.

foto Giancarlo Racalbuto

Ma procediamo con ordine e ricominciamo da dove eravamo partiti. E lo faccio anche io con i modi e le forme che critico alla mia terra, indulgendo in una specie di ossimoro personale che mi porta a parlare di ciò che non conosco per come dovrei ma che provo ad immaginare a fronte di fonti scarsissime. Torno quindi alle “mie Madonie” (e dico mie perché da quelle montagne un pezzo della mia famiglia e della mia storia discendono) e torno con delle domande che so essere senza risposta in termini di fonti storiche ma che posso immaginare in termini antropologici. Non conosco chi sta all’origine di questa idea e non so come si svolsero i lavori, gli incontri, le riunioni fra le istituzioni e più in generale fra le persone, che finirono per partorire l’idea del comprensorio sciistico delle Madonie. Posso arrivare però, come dicevo, ad immaginare attraverso la conoscenza antropologica della mia gente, quali siano state le sollecitazioni, cosa abbia ispirato l’azione, cosa abbia, o non abbia, supportato coloro che avevano la competenza e il ruolo per prendere decisioni, nell’atto del decidere. Ed è da questo ultimo punto che partirei. Provo ad immedesimarmi in una di quelle persone che deve prendere una decisione (saranno stati amministratori e imprenditori dell’epoca) e che farei io in quel caso? Cosa farebbe ognuno di voi per potere prendere una decisione relativamente all’opportunità di costruire o meno una stazione sciistica sulle Madonie? Io per prima cosa proverei a recuperare dati climatici che possano dare risposta alla mia domanda: “ma statisticamente da queste parti come vanno le cose? Ci sono state fino ad adesso in queste zone precipitazioni nevose degne di questo nome e che possano rendere nel tempo, in termini quantitativi e di durata, significativi degli investimenti del genere?”. Non sto parlando di quello che sarebbe successo decenni dopo. Non sto parlando di cambiamenti climatici, delle 342 stazioni sciistiche in difficoltà in Italia a ben altre latitudini a partire già dagli anni novanta. Non sto parlando di un fatto già assodato che ci dice che, se le cose continuano ad andare avanti così, tutte le località sciistiche al di sotto dei 2000 metri di quota (Piano Battaglia si trova non soltanto in Sicilia ma anche a una quota compresa fra i 1600 e i 1850 metri s.l.m.) non potranno più contare su un innevamento sufficiente (parliamo solo di quello naturale) a renderle economicamente sostenibili. Sto parlando di un amministratore avveduto, di un imprenditore lungimirante degli anni ’60 che dice: “recuperiamo un po’ i dati degli anni passati e capiamo se la cosa può funzionare”. Ché i dati già a quel tempo c’erano. Il Servizio Idrografico Italiano infatti aveva già a disposizione dati (che avrebbe pubblicato solo nel 1971 ma che già da allora erano reperibili) su “La nevosità in Italia nel quarantennio 1921-1960”. E cosa ci raccontano questi dati? Nell’area madonita le precipitazioni nevose medie nel quarantennio in questione sono comprese fra 50 e 100 cm, che il numero medio di giornate di precipitazioni nevose è compreso fra 5 e 10 giorni e che, soprattutto, la permanenza media del manto nevoso nella zona in questione è compresa fra 1 e 10 giorni! In una parola, se qualcuno si fosse premurato di andare a controllare i dati statistici la risposta alla domanda sarebbe stata, già nel 1962: “impiantare una stazione sciistica in questa zona sarà nel tempo assolutamente insostenibile”. E infatti “la Battaglia” comincia quasi subito e si combatte tutta attorno a un’illusione che contiene una pretesa identitaria che si scontra con pratiche e azioni che nulla hanno a che fare con la nostra identità, con un ambiente estremamente fragile che mal si concilia con una pressione antropica che per forza di cose si concentra in un periodo brevissimo dell’anno, con una realtà amministrativa che non possiede risorse culturali ed economiche per stare dietro ad una realtà esotica e alloctona come quella di una stazione sciistica. Dopo i primi anni in cui la stazione comincia ad assumere la sua forma, anche nello stile architettonico, di un pezzo di Trentino misteriosamente atterrato in Sicilia e sembra volere e potere decollare, cominciano le difficoltà. Ricordo personalmente, già più di trenta anni fa, accese riunioni in cui arrabbiatissimi amministratori locali chiedevano con urgenza azioni atte a favorire una più lunga permanenza del manto nevoso attraverso l’utilizzo dei cannoni sparaneve. Eravamo già negli anni novanta, quando, che piaccia o no, la Regione Sicilia aveva istituito il Parco regionale delle Madonie all’interno del quale il comprensorio ricadeva. Da quel momento in poi si attivano tutta una serie di scontri fra le amministrazioni competenti alla gestione degli impianti e società private che negli anni si sono alternate nel tentativo, appunto, di gestirli materialmente che hanno portato nel 2006 alla chiusura più che decennale degli impianti stessi. Poi nel 2017 la “riapertura” che metto fra virgolette perché in realtà è stata una lunga teoria di finte riaperture, riaperture ritardate, diatribe legali fra società gestore ed ex Provincia di Palermo. Quest’inverno la neve è arrivata a febbraio. Sono riusciti a riaprire gli impianti quindici giorni dopo, e dopo una settimana, grazie ad una sciroccata di febbraio, la neve era già andata via. La speranza a questo punto è legata alle improbabili nevicate di marzo.

foto Giancarlo Racalbuto

E’ questa dunque la vocazione della mia terra? Sta in questo la nostra identità? E’ in questo che vogliamo investire risorse sempre più difficili da reperire per rivitalizzare il nostro entroterra? E’ questo che pensiamo di fare per promuovere luoghi di incredibile bellezza, significato, ricchezza di valori naturalistici e storici come il Parco delle Madonie e il Parco dell’Etna? Per vedere quello che questa idea di importazione ha prodotto negli anni basta fare un giro nelle zone circostanti il comprensorio madonita. Un’ecatombe di rifugi in stile svizzero e di alberghi dall’immane capacità ricettiva completamente abbandonati, realtà imprenditoriali che hanno creduto all’illusione (molto diffusa in Sicilia anche in ambito costiero dove la destagionalizzazione è più un esercizio retorico che un progetto concreto) del “con le piste da sci guadagniamo in tre mesi quello che ci serve poi per campare tutto l’anno” senza capire che quei tre mesi non sono mai esistiti e che nel tempo quell’offerta già improbabile alle origine sarebbe diventata impossibile da garantire.

Vale magari la pena di prendere contatto con una serie di altre piccole strutture ricettive, realtà associative, piccole iniziative di supporto alla fruizione, che negli anni sono nate e cresciute in questi luoghi, magari entro uno degli innumerevoli borghi che incoronano i due parchi. Realtà che fondano la loro esistenza su un pubblico sempre più presente e fedele che cerca in quei luoghi quello per cui in fondo esistono: dare la possibilità a chi si avvicina con rispetto e attenzione, di fare esperienze uniche, di essere introdotti ad un’interpretazione che attraverso il turismo relazionale, per esempio, fa dei luoghi dei posti unici. Vedere oggi gruppi di persone che si muovono con le ciaspole sui sentieri dei due parchi, chi recupera attività che hanno a che fare con lo sci da fondo o con lo sci alpinismo senza doversi per forza affidare all’aleatorietà degli impianti di risalita (e questo solo per parlare delle attività alle quali avvicinarsi nel breve periodo in cui la neve c’è) ci da la speranza che anche sulle Madonie e sull’Etna ci avviciniamo al tempo i luoghi potranno dire di avere onorato la propria vocazione.

Un ultimo appunto sulla questione dell’identità e su cosa voglia dire importare modelli che non ci appartengono. Sapete come si chiamano due piste del comprensorio delle Madonie? Scoiattolo e Marmotta. Due animali che in Sicilia non esistono.

Francesco Picciotto