Sarebbe falso e superficiale affermare che le montagne non siano cambiate nei primi scampoli del millennio, a partire dal decennio precedente. Sono cambiate eccome, ma il mutamento non riguarda tanto le politiche dei grandi investimenti e dei grandi piani, quanto i progetti secondari, puntuali, talvolta invisibili. Non tanto la montagna alta quanto la media, spesso considerata “minore” e di solito ignorata e scavalcata dai flussi turistici. Lo suggerisce Mauro Varotto in “Montagne di mezzo”: «Luoghi apparentemente perdenti sono tornati al centro di movimenti di “nuova resistenza” ai modelli dominanti di standardizzazione, specializzazione e intensificazione produttiva che hanno decretato la crisi della montagna contemporanea o le sue effimere fortune».

La grande mutazione attiene al piccolo: piccoli comuni, piccoli villaggi, piccole comunità, piccole aree, eppure vastissime se distribuite su oltre duemila chilometri tra le Alpi e gli Appennini. In definitiva il cambiamento tocca assai più i significati che le strutture. Le persone, insomma, e le storie di comunità. «Perché le montagne possano immaginare un futuro abitato per viverne gli spazi e non semplicemente occupato per consumarne le risorse – precisa Giovanni Teneggi –, occorre una comunità che possa dirsi tale perché ancora capace di trasformare il patrimonio materiale in vita».

Agli investimenti in denaro e consumo delle multinazionali, si contrappone l’investimento in saperi e valori delle comunità interne, in paesi e borgate poco rinomate, dove s’incontrano le persone che decidono di restare e le altre che salgono ad abitare. Vecchi e nuovi residenti tenuti insieme non da un diritto di nascita o una prelazione di luogo, ma dalla comune volontà di vivere in montagna. Accomunati dalla vocazione e dall’intenzione, a prescindere dalla provenienza. Come i montanari di un tempo, imparano molti mestieri e diffidano del turismo intensivo e di ogni monocultura; come i giovani di oggi, si muovono agevolmente tra la motozappa e il computer, sanno fare il pane, amano coltivare la terra, allevare animali e far crescere i sogni. Non sono ambientalisti per ideologia, ma rispettano la natura per scelta di vita. Non sono amici del turismo di massa, perché cercano e vogliono un’altra montagna. Ecco il punto: non è più l’industria turistica a calamitare i nuovi abitanti, ma si potrebbe azzardare che sia il suo contrario, o meglio un mix di agricoltura, turismo, produzione culturale e molte altre cose. Su tutte comanda lo scambio, che rompe i vecchi muri tra montagna e città, i montanari e gli aspiranti, i geneticamente adatti e gli altri.

Negli anni Duemila la montagna è un saliscendi: chi scende a cercare una sistemazione in pianura e chi rimonta le valli per abitare, o ci torna. La letteratura del terzo millennio sdogana la figura del “montanaro per scelta” che avevo coniato nel 2002 ne “La nuova vita delle Alpi”, sperando di non spararla troppo grossa. I giovani di mezza età si identificano nei libri di Paolo Cognetti o di Franco Faggiani, che sono il racconto del mondo “liquido” e senza barriere in cui cittadini e montanari incrociano i loro destini parlandosi, perdendosi e ritrovandosi. Senza ricette. La madre che li tiene insieme è una natura sempre più necessaria, da qualunque parte si guardi.

Il precariato è dappertutto, in basso e in alto, così c’è chi scende per emanciparsi dal passato e chi sale a inventarsi un futuro. Alcuni abitano su e giù a stagioni alterne, rompendo la dicotomia. Di solito il nuovo abitante porta linfa vitale perché ha deciso liberamente di vivere in un ambiente scomodo, spinto da una motivazione etica ed ecologica. È montanaro per chiamata, non per punizione. Come osserva Aldo Bonomi, sono persone che «con coscienza di luogo del nuovo spazio di posizione delle terre alte e con cultura del territorio e del fare impresa nella green economy rianimano alpeggi, turismo lento, boschi, agricoltura…». I sociologi li definiscono “ritornanti”, decifrando le storie di chi torna all’agricoltura, alla terra e alla montagna.

Spesso i cittadini si mostrano più conservatori dei “veri montanari”, nel senso che, avendole provate, rifuggono le degenerazioni del consumismo e praticano stili di vita sobri, etici, non di rado austeri. Chi ha testato sulla pelle il danno può permettersi consapevolmente il rifiuto.

Enrico Camanni