Non vi è dubbio che il mondo dello sci da discesa viva oggi un momento di crisi profonda. Cambiamento climatico, crisi economica e cambiamento degli stili di fruizione della vacanza in quota hanno sancito la fine del “turismo di massa” sulla neve, inteso come il fenomeno del riversarsi di tanta parte della città nelle montagne limitrofe per il weekend o la settimana bianca, tutti a scivolare insieme con i vicini di casa, i compagni di classi o colleghi di lavoro. Il venir meno di questo fenomeno oggi mette in crisi parecchie stazioni sciistiche, anche conosciute, stimate e fino a 20 anni fa molto frequentate.

E allora, cheffare? Bisogna correre subito ai ripari, prima che sia troppo tardi, cercare alternative alla monocultura dello sci che possano permettere alle comunità che di sci ancora campano di realizzare una transizione il meno dolorosa possibile verso nuove economie in grado di sostituire quella dell’oro bianco. Dove è ancora possibile, e parliamo delle grandi stazioni sciistiche in alta quota, bisogna cominciare ad affiancare alternative appetibili agli impianti di risalita, per cominciare poco alla volta a trasferire il core business dalla neve ad altre attività con una transizione che possa evitare un domani di arrivare a situazioni di crisi totale del territorio. In altri casi, dove gli impianti sono ormai chiusi o diventati insostenibili, e parliamo di medie e piccole stazioni sciistiche con dominio sciabile spesso al di sotto dei 2000 metri, bisogna sostituire in toto il vecchio modello di business.

L’amico Giovanni Teneggi, direttore Confcooperative Reggio Emilia e grande teorico e sostenitore delle cooperative di comunità, riferendosi alla sorte di realtà come le stazione sciistiche dell’Abetone o di Corno alle Scale, nel suo Appennino tosco emiliano, sostiene che «non esiste un’industria capace di andare a riempire il cratere lasciato da quelle realtà. C’è bisogno di un cambiamento di paradigma, da un’offerta di turismo di consumo a forme di turismo sostenibili e comunitarie». Con numeri e introiti sicuramente più contenuti, ma maggiormente diffuse sul territorio montano rispetto alle stazioni sciistiche.

In effetti se guardiamo i numeri, oggi a fronte di 3537 comuni italiani, tra Alpi e Appennini, classificati come totalmente montani, solo 288 sono interessati da comprensori sciistici. Poco più dell’8%. Mentre il turismo “sostenibile e comunitario” di cui parla Teneggi, è un’offerta distribuita su praticamente tutti i comuni montani, perché un B&B, un’azienda agricola o un ecomuseo capace di valorizzare la comunità e creando opportunità lavorative esistono in tutti i comuni delle terre alte del nostro paese.

Si tratta di un turismo con un approccio di curiosità e scoperta per i territori, alla ricerca di produzioni locali, rispettoso dell’ambiente, che valorizza la cultura locale, un tipo di turismo che noi a Dislivelli abbiamo chiamato “dolce”. Un “non ancora”, come lo abbiamo definito nel libro “Inverno Liquido”, che arriverà a sostituire poco alla volta quel “non più” che alimenta un sentimento di paura diffuso all’interno delle comunità, che si stringono intorno ai loro impianti sperando nell’arrivo di una nuova industria che possa coprire il vuoto lasciato dallo sci da discesa, e non riescono a intravvedere strade alternative per il futuro, soprattutto nei luoghi in cui la monocultura dello sci da discesa ha spento il genius loci preesistente. Questo “non ancora” è il segnale di un nuovo che avanza, cercando di interrogarsi sul cambiamento climatico della montagna invernale, ipotizzando nuove proposte turistiche durevoli, piccoli messaggi di speranza in un contesto generale ancora stordito e ben lungi dall’essersi riorganizzato.

Per fare alcuni esempi, ma ce ne sarebbero infiniti, possiamo partire dal piccolo Comune di Prali, in Alta Val Germanasca, Provincia di Torino, dove nel 2005 dopo che la seggiovia 13 Laghi è stata revisionata grazie ai finanziamenti di Torino 2006, è nata una società di gestione degli impianti a fune fondata da 30 imprenditori locali, che si sono autotassati, e che oggi permettono all’impianto di lavorare 12 mesi, promuovendo attorno anche altre forme di turismo oltre allo sci, valorizzando aziende agricole, spingendo sulle mezze stagioni, mettendo a disposizione dei turisti in settimana il patrimonio edilizio. Che negli ultimi anni ha visto un aumento dei residenti, giovani.

Oppure l’Associazione Naturavalp, in Valpelline, una valle laterale del Gran San Bernardo, in Provincia di Aosta, dove gli esercenti locali alla ricerca di forme di turismo basate sulla valorizzazione delle risorse endogene (sentieri, ghiacciai, prati, laghi, foreste, distese di rocce e pietre, produzioni tipiche, cultura, coltura, ecc.), intercettano sempre più viaggiatori capaci di apprezzare un territorio vissuto da gente di montagna, in grado di trasmettere modelli e stili di vita che in passato venivano considerati obsoleti ma che oggi riacquisiscono valore e attualità. Sono partiti in 5 imprenditori locali nel 2012, e oggi il 90% delle strutture ricettive aderiscono, insieme a aziende agricole e operatori.

A Piani di Artavaggio invece, dove l’amministrazione comunale di Moggio, in provincia di Lecco, ha acquisito la proprietà degli impianti, nel 2006 è stata riattivata la funivia di arroccamento chiusa da qualche anno per fallimento e allo stesso tempo smantellati i vecchi impianti in quota. Risultato: Piani di Artavaggio oggi, senza impianti per lo sci, è un luogo speciale, aperto a un mondo nuovo che sale e si entusiasma per lo speciale rapporto con l’ambiente rinaturalizzato. E fa i numeri, con centinaia di persone che ogni settimana, estate, inverno e mezze stagioni, vivono avventure a contatto con la montagna.

Nella Conca di Smeraldo c’è Recoaro 1000, una piccola stazione sciistica fallita e chiusa definitivamente nel 2017, adagiata ai piedi delle Piccole Dolomiti, in Provincia di Vicenza. Una cordata di imprenditori privati ha deciso di abbandonare lo sci al suo destino e puntare sul primo bike park della Provincia di Vicenza “a stretto contatto con la natura”. Vincendo la sfida, perché oggi gli ospiti arrivano e riescono a vivere delle esperienze uniche.

C’è poi la Val di Funes, in Sud Torolo, dove il presidio Slow Food della Pecora con gli occhiali diventa il catalizzatore attorno al quale la comunità si riorganizza per proporre il “turismo delle relazioni”. Contadini, allevatori, agriturismo, albergatori, artigiani e custodi della storia e della cultura locale, si sono uniti per fare rete e offrire un’accoglienza di qualità a misura d’uomo.

Passando dall’Arco alpino a quello appenninico, troviamo le cooperative di comunità dell’Appennino Tosco Emiliano, un vero modello di transizione da “un’offerta di turismo del consumo a forme di turismo sostenibile e comunitario”, come sostiene Teneggi. La prima in Italia è nata proprio lì, si chiama “Valle dei Cavalieri”, ed è a Succiso, una piccola frazione del comune di Ventasso, a 1000 metri di altitudine, in Emilia, provincia di Reggio; poi sono arrivati i “Briganti di Cerreto”, 900 metri di altitudine, all’interno del Parco Nazionale dell’Appennino tosco-emiliano; e ancora la cooperativa Foiatonda, a Madonna dei Fornelli, frazione del comune di San Benedetto Val di Sambro, situata a 798 m di altitudine sulla linea di displuvio tra Savena e Sambro, in provincia di Bologna. Tutte attive e con numeri di ospiti in crescita, grazie al collegamento con i cammini e a forme di accoglienza super inclusive.

Infine il Monte Mutria, in Campania, al confine con il Molise, dove un gruppo di persone di montagna ha puntato sulla collaborazione, costituendosi nell’autunno del 2019 nella Comunità Slow Food dei Custodi del Monte Mutria. Un agricoltore, un allevatore, un casaro e un albergatore si sono messi in rete per proporre un turismo esperienziale di qualità, in un’esperienza che oggi vede altri interessati entrare a ingrossare le fila di chi accoglie.

Maurizio Dematteis