Stereotipo: Opinione precostituita su persone o gruppi, che prescinde dalla valutazione del singolo caso ed è frutto di un antecedente processo d’ipergeneralizzazione e ipersemplificazione, ovvero il risultato di una falsa operazione deduttiva.
Uno stereotipo è una caricatura disegnata da tante mani: infatti, proprio come un ritratto satirico, esaspera alcuni tratti evidenti, ne ignora spudoratamente altri, si prende gioco di un soggetto sfigurato e tuttavia ancora ben riconoscibile.
Questo articolo parla del Cai visto da fuori, ovvero degli stereotipi del tesserato e dell’istruttore del Club Alpino Italiano ricavati dalle opinioni di chi non fa parte del Cai o da quanti ne restano ai margini e, pur rinnovando regolarmente l’iscrizione, non fanno vita sezionale né partecipano alle gite (il grande classico: “ho la tessera per pagare meno nei rifugi, per questioni assicurative, per gli sconti, perché in fondo fa figo e non impegna”).
Ma le recenti e approfondite indagini dell’autrice, svolte sul campo (al rifugio) dopo abbondanti libagioni (passato il terzo genepì), hanno messo in luce tutte le difficoltà insite nel tentativo di abbozzare l’identikit del caino medio (o, come dicono alcuni con una punta di disprezzo, del “caiano”). Infatti, a seconda di quale sia il modo di vivere la montagna del non-caino, cambia anche la percezione del Cai stesso. Sussiste un ricco campionario dei frequentatori della montagna, agilmente rappresentabile con una sorta di “scala dell’essere”, una piramide che ha per base l’esecrabile massa dei pigri e pavidi merenderos (sempre plurali, perché essi sono “la” massa per definizione) e al vertice, là dove il neoplatonismo collocava il divino, qualcosa di molto simile, ovvero la Guida Alpina – onnipotente, onnisciente, onnipresente quando il gioco fra le cime si fa duro. Nel mezzo si articola una variopinta congerie che va (partendo dal basso) dall’escursionista della domenica all’alpinista esperto, passando per l’escursionista eroico, l’amante delle vie moderne in montagna, i garisti dello scialpinismo e della corsa in montagna (due categorie, queste ultime, spesso particolarmente snob). L’aspetto gratificante di questa classificazione è che naturalmente ciascuno è libero di scegliere in quale tipologia collocarsi e, come logica conseguenza, di farsi beffe di quelle sottostanti. Un altro aspetto confortante da non trascurare è che per quanto si sia in basso, normalmente c’è sempre qualcuno al di sotto di noi, sicché chiunque ha per fortuna ancora qualcuno da vilipendere. Stipata alla base della piramide dei frequentatori della montagna, la bovina massa paciosa dei merenderos rumina saggiamente le sue salsicce a bordo strada, “co’l lento giro dei pazienti occhi”, senza né percepire né darsi cura alcuna del peso del biasimo dei camminatori di rango superiore.
Quindi, una volta rozzamente delineata l’ontologia della fauna umana alpina, partiamo dal basso (i merenderos non sono contemplati in quanto privi di favella, perché perennemente impegnati nell’atto masticatorio). Chi bazzica in montagna in modo saltuario spesso percepisce il Cai (in quanto ente astratto) e gli istruttori (in quanto emanazione terrena del Club Alpino) come un’infallibile garanzia di competenza e di esperienza, quasi che ciascuno degli istruttori abbia ricevuto infuso lo scibile alpinistico accumulato negli ultimi 150 anni: nani arrampicati sulle spalle dei giganti. E in un certo senso è davvero così: è infatti anche grazie al lavoro di ricerca e didattica del Cai che nuove tecniche si affermano, affinano e diffondono.
Esiste invece una legge statistica finora inspiegabilmente ignorata dal mondo scientifico secondo la quale “ogni x, dove x è un alpinista di una certa esperienza esterno o ai margini del Cai, prima o poi nel corso della sua carriera si imbatte in un y tale per cui y è un istruttore del Cai appariscente, chiassoso e imbranato che combina pasticci suscitando l’indignata perplessità di x”. Vale qui ancora una volta la storia dell’albero che cade provocando ben più rumore di un’intera foresta che cresce: basta un episodio di distrazione o di inettitudine per trasformare gli istruttori del Cai, decine di persone competenti e preparate, in un esercito di carabinieri della montagna. Va anche aggiunto che ciò che spesso turba l’alpinista medio e mediamente ostile a qualsiasi cosa che vagamente assomigli anche da lontano a un’uniforme è l’ostentazione di quella che volgarmente viene chiamata “patacca”: ma non sarà forse una segreta punta di invidia dello scalatore solitario per l’ascendente che la patacca indiscutibilmente conferisce sulle allieve dei corsi?
A proposito di corsi, molti frequentatori esperti della montagna non caini considerano l’occasionale incontro con un corso Cai o con una gita sociale alla stregua di una calamità inevitabile, con lo stesso fastidio che si riserva alle zanzare al mare d’estate. Per loro e per chi in montagna si allena a piedi o sugli sci, lo stereotipo del caino medio è quello “camicia a quadri – pintone – pane e salame”. Io, che in montagna mi alleno, ma che sono una corsista Cai recidiva, che in montagna per un istruttore un po’ tentennante che ho incontrato ne ho conosciuti molti cui mi sentirei tranquillamente di affidare la vita, che amo la solitudine senza per questo disdegnare il cicchetto in vetta in compagnia, personalmente agli stereotipi di ogni tipo, da quello dell’eroe a quello antipodico e ugualmente falso dell’imbranato o dell’alpinista da branco, preferisco questa storia vera d’amore per la montagna (e per il Cai), regalatami da un’amica (senza tessera): «se mi dici Cai mi viene sempre in mente un nonnetto sconvolgente che ho incontrato un pomeriggio al rifugio Bozano (Alpi Marittime). Quel tipo incredibile aveva novant’anni: era felice come una pasqua per essere salito ancora una volta con le sue gambe fin lassù e mostrava orgoglioso a tutti la sua tessera fatta 70 anni prima!!! Il suo compagno di gita in compenso era un giovanotto di ottantaquattro anni: ci hanno messo cinque ore ad arrivare al rifugio, poi hanno spazzolato come se niente fosse due etti di pasta a testa, si son fatti riempire le borracce di vino e sono ripartiti per scendere… con l’ottantaquattrenne che cercava di convincere l’amico a ripartire per andare ancora al Remondino!».
Irene Borgna