Che cosa accomuna il torrente St. Barthélemy (Ao), per lo più canalizzato e quasi sempre in secca, con la pianura Padana sommersa dall’agricoltura intensiva? E con i fondovalle lastricati di capannoni? O ancora con l’intonsa conca dell’Alpe Devero (Vb), a rischio di nuovi impianti? Non molto, se non il fatto che sono tutti quanti ambienti naturali “invisibili” agli occhi degli amministratori e a buona parte del mondo sociale e produttivo del Paese.
I report sullo stato dell’ambiente sono tutti concordi nel denunciare quanto negli ultimi 50 anni gli esseri umani abbiano modificato in peggio gli ecosistemi e di come questa trasformazione dello stato del pianeta stia determinando gravi perdite nel nostro benessere e nel nostro sviluppo economico. Non mancano tuttavia importanti tentativi istituzionali per modificare la rotta, come il programma internazionale Teeb (The economics of ecosystems and biodiversity), patrocinato dalle Nazioni Unite, i cui rapporti conclusivi sono stati pubblicati nel 2010: si tratta di uno studio che ha evidenziato con chiarezza come il benessere umano dipenda fondamentalmente e direttamente dagli stock e dai servizi degli ecosistemi presenti sul pianeta. Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca il Millennium ecosystem assessment (Mea) del 2001, voluto dall’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan per valutare gli effetti del degrado degli ecosistemi sul benessere della vita delle popolazioni a livello globale, e per trarne indirizzi per il futuro sulla conservazione e la gestione sostenibile delle risorse naturali. Secondo il Mea, la crescita economica ha richiesto un costo crescente in termini di degrado degli ecosistemi e dei loro servizi dal momento che il valore economico e sociale stesso di questi ultimi non è in nessun modo stato contabilizzato nelle decisioni pubbliche e private. Per questo motivo la denominazione di “Capitale naturale”, che sta sostituendo quella di “Patrimonio naturale”, pare possa rispondere in modo più pregnante ai nuovi bisogni di conteggio degli assets di cui disponiamo. Se non altro per il fatto che, dando un valore economico alla natura, per la prima volta si riconosce un valore che prima sembrava invisibile.
La definizione più in uso di “Capitale naturale” è quella data dal Comitato sul capitale naturale del Regno Unito (Uk Natural capital committee ): “L’intero stock di beni naturali – organismi viventi, aria, acqua, suolo e risorse geologiche – che contribuiscono a fornire beni e servizi di valore, diretto o indiretto, per l’uomo e che sono necessari per la sopravvivenza dell’ambiente stesso da cui sono generati”. L’espressione “Capitale naturale” è quindi molto complessa e non riguarda solo la disciplina economica, ma anche competenze naturalistiche, fisiche e chimiche. Abbiamo ad esempio un’idea complessiva del ruolo degli esseri viventi impollinatori nel mondo? Poco, troppo poco per capirne l’enorme valore. Il nostro costante allontanamento dalla natura ci ha fatto perdere quella cultura naturalistica che pur nella sua parzialità era diffusa nella società contadina. Ciò nonostante per poter assumere corrette decisioni di investimento sulle risorse oggi è fondamentale saper riconoscere e valutare il Capitale naturale. Una buona e articolata conoscenza multidisciplinare è il presupposto indispensabile per stabilire gli usi compatibili con le risorse naturali, le strategie di gestione e le possibili opzioni per ripristinare, conservare e – last but not list – mitigare e adattarci ai cambiamenti climatici. Infatti i territori più ricchi di servizi ecosistemici sono, generalmente, più resilienti e meno vulnerabili a fronte di eventi naturali estremi come piogge intense o ondate di calore.
Quello del “Capitale naturale” e dei connessi “Servizi ecosistemici” è un approccio che potrebbe essere utile anche nei rapporti tra territori. Potrebbe migliorare le relazioni tra i territori dove i servizi vengono prodotti (ad esempio le montagne con la loro elevata naturalità) e quelli in cui vengono utilizzati, e quindi tra le comunità che abitano questi luoghi e coloro che ne fanno uso. L’utilizzo di un tal modello culturale ci potrebbe far realizzare che i sistemi naturali e i relativi servizi sono innanzitutto Beni comuni, e quindi da tutelare poiché tutti ne abbiamo bisogno, nessuno escluso. Le buone pratiche di gestione collettiva dei terreni, così usuali un tempo nelle terre alte, sono per l’appunto un esempio di protezione non fondata esclusivamente sulle normative ma anche e soprattutto frutto di una quotidiana interazione tra comunità locali e beni naturali. In questi contesti le comunità si assumono la responsabilità delle condizioni d’uso del bene e quindi della sua conservazione. Per questo motivo sarebbe cosa buona e giusta se i decisori territoriali in fase di pianificazione tenessero presente anche il punto di vista di coloro che operano per un “Bene comune” al pari di quello degli imprenditori economici privati. Perché la natura di “Bene comune” delle risorse ambientali (locali o globali) comporta la necessità di trovare soluzioni condivise e pone al centro il tema della responsabilità collettiva.
Vanda Bonardo, Responsabile Legambiente Alpi