Robero Dini, Luca Gibello, Stefano Girodo, “Rifugi e bivacchi. Gli imperdibili delle Alpi”, Hoepli, Milano 2018. 344 pagine illustrate, 29,90 euro.
L’idea è la seguente: raccontare i rifugi e i bivacchi delle Alpi come si raccontano le opere dell’arte e dell’ingegno, mettendo insieme un catalogo di progetti stupefacenti inseriti in ambienti straordinari. Impresa riuscita, perché gli autori uniscono la competenza alpinistica, architettonica ed estetica, quindi sono in grado di descrivere un rifugio dal punto di vista tecnico inserendolo nel contesto storico e geografico, aiutati da ottime immagini e schizzi. Come in un catalogo d’arte, appunto, rivolto sia agli specialisti sia ai semplici appassionati, ma così sontuosamente illustrato da catturare anche il grande pubblico.
Il soggetto è unico, perché i rifugi e i bivacchi delle Alpi uniscono il fascino dell’architettura contemporanea, talvolta d’avanguardia, agli ambienti dell’alta quota, quasi sempre estremi. Nel libro delle meraviglie si viaggia dai rifugi delle Alpi Marittime a quelli dell’estremo est, passando per i celebri gruppi montuosi, le astronavi dei Monte Bianco e del Monte Rosa, la pulizia e la grazia delle architetture svizzere, le più tradizionali soluzioni trentine e dolomitiche, lo slancio progettuale di alcune costruzioni austriache, fino alla mirabile semplicità modernista del bivacco al Kanin, in Slovenia, che chiude la galleria. Le opere dell’uomo e della natura s’incrociano in questi avamposti di sopravvivenza, che all’interno mostrano le più sofisticate soluzioni tecnologiche e all’esterno tradiscono la solitudine e la fragilità dell’uomo. Nei rifugi d’alta montagna, scrive Antonio De Rossi nella prefazione, s’incontrano «l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo» e, si potrebbe aggiungere, l’infinitamente antico e l’infinitamente visionario.
I territori ampiamente esplorati ma sempre severi dei due-tre-quattromila metri pretendono sperimentazioni audaci e concezioni inedite. Lo dimostravano già nel ventennio i futuristici bivacchi prefabbricati a semibotte, niente di più contrastante con la casa tradizionale alpina. Già un secolo fa qualcuno pensava a sorta di navicelle spaziali in grado di stipare due o tre alpinisti nelle rigide notti del Monte Bianco, per regalare qualche ora di sonno prima della grande avventura. Non si tratta di abitare l’alta montagna, perché nessuno – tranne forse i gestori dei rifugi – abita sopra i tremila metri d’altezza. Si tratta di ospitare chi parte per le cime e chi arriva da un’escursione, trasformando il rifugio stesso in cima e meta finale.
Pubblici molti differenti s’incontrano nei rifugi, compresi gli escursionisti che camminano da rifugio a rifugio; tutti cercano un riparo dalla notte. Questo significato resta intatto nel terzo millennio e la parola “rifugio” è ancora la più adeguata, oggi come nell’Ottocento, anche se dalle fiammelle delle candele si è passati all’illuminazione alimentata dai pannelli solari e dai sistemi fotovoltaici. Sono cambiati i rifugi, sono cambiati i tempi, sono cambiati gli alpinisti, ma non quella sensazione di fragilità quando scende la notte, soffia il vento e scricchiolano i seracchi. A questo serve il rifugio: a sentirsi protetti dal troppo grande per l’uomo.
Enrico Camanni