Il progetto Luoghi lanciato da Dislivelli punta dritto al cuore dei problemi della montagna. Marginalizzazione e abbandono, non meno del degrado ambientale, della colonizzazione turistica, del declino o della scomparsa delle culture locali, sono aspetti diversi, spesso compresenti, di quella “cancellazione dei luoghi” che ha caratterizzato in misura crescente e pervasiva i processi di trasformazione territoriale dell’ultimo secolo. La “tabula rasa” su cui il movimento moderno proiettava i sogni della città futura non ha riguardato soltanto gli spazi dell’urbanizzazione ma anche quelli della produzione agricola e della gestione forestale. Riconquistare la consistenza, il ruolo e la riconoscibilità dei luoghi dell’insediamento montano, e ricucirne le trame, sono passaggi obbligati per il rilancio economico, sociale e culturale della montagna.
Il riconoscimento dei luoghi ha assai poco a che vedere con le operazioni cosmetiche mobilitate dall’industria del turismo o alimentate dalla nostalgia per un passato preindustriale e premoderno. Implica l’individuazione di spazi “misurabili”, differenziati e  relativi a specifici contesti, geograficamente, ecologicamente  e storicamente determinati. Lanciando un ponte tra natura e cultura, il paradigma paesistico offre un aiuto potente nella direzione indicata dalla Convenzione Europea del Paesaggio, lanciata a Firenze nel 2000 dal Consiglio d’Europa. Spinge a guardare al di là dei “bei paesaggi” alpini (i paesaggi-cartolina) o delle “bellezze naturali” meritevoli di specifica tutela, o delle immagini, dei riti  e delle retoriche  tradizionali, o degli stessi stilemi che hanno nel corso dei secoli o dei millenni associato le forme fisiche  degli insediamenti antropici ai modi di vita, di abitazione e di lavoro. Sposta l’attenzione sui sistemi di relazioni che strutturano le unità ecosistemiche (le “unità di paesaggio”) e che caratterizzano le identità territoriali a tutti i livelli. Il riconoscimento dei luoghi non può prescindere dall’affermazione e dalla difesa delle identità locali, anche quando si tratta di identità “armate e bellicose”, scopertamente esclusive e isolazioniste.

Questo non implica la sottovalutazione delle relazioni che le connettono. Paradossalmente, l’enfasi sulle identità ha anzi contribuito a richiamare l’attenzione sulle reti di connessione. Non soltanto le reti ecologiche in senso stretto, quali quelle che legano i sistemi delle acque alle dinamiche agroforestali. E non soltanto le relazioni “di prossimità” o di “vicinato”, quali quelle che hanno nei territori montani dato luogo a sapienti articolazioni di centralità e “micro centralità” territoriali (espressioni più o meno complesse della solidarietà comunitaria, dai borghi e borgate ai villaggi agli hameaux agli alpeggi e ai più piccoli nuclei insediativi fondati sulla condivisione del forno per il pane). Ma anche quelle connessioni di medio o lungo raggio (dalle rotte della transumanza alle gravitazioni sui mercati locali, ai percorsi devozionali, alle grandi  vie transnazionali delle fiere e dei commerci, più recentemente ai percorsi del trekking e dell’escursionismo) che hanno, in misura maggiore o minore, consentito ai luoghi di non chiudersi nell’isolamento. Luoghi e reti rappresentano da questo punto di vista metafore complementari dell’apertura e chiusura dei sistemi locali.
Se pensiamo i luoghi in questo quadro, non possiamo evitare di confrontarci col cambiamento, interrogarci sul senso che il cambiamento può assumere nei territori montani e più precisamente nei luoghi che ci interessano. Due parole sembrano contendersi la risposta: conservazione e innovazione. Anche a causa dell’aggravamento dei rischi che incombono sul patrimonio naturale e culturale, l’opzione conservativa ha oggi ragioni più forti che in passato. A fronte delle minacce incombenti, in particolare quelle connesse al “global change” (non solo climatico, ma anche economico e sociale), non possiamo permetterci il lusso di affidare al “mercato” le sorti della montagna, risorsa di particolare sensibilità e di eccezionale significato strategico ai fini delle politiche di prevenzione e adattamento da adottare. Occorrono forme e apparati di regolazione pubblica dei processi di trasformazione che non si limitino a salvaguardare i singoli oggetti (i beni) di eccezionale valore individuale, ma assicurino la conservazione e la fruibilità del patrimonio naturale, paesistico e culturale diffuso su tutto il territorio, appartenente a tutti e nessuno. Ciò richiede  una costante tensione innovativa, atta a dar senso e  continuità alle misure di conservazione, ossia a inserirle in una prospettiva autenticamente progettuale. Solo così si può evitare che la nostalgia soffochi ogni ansia di contemporaneità, imprigionando ogni anelito creativo in traiettorie senza speranze di futuro. Ma inversamente occorre accettare l’idea che non esiste innovazione autentica che ignori l’eredità naturale e culturale affidata alle nostre cure, che pretenda di additare le mete del futuro senza chiedersi chi siamo e da dove veniamo. Ogni progetto è fondato sull’oblio, ma non esiste oblio senza memorie e non esiste memoria senza progetto. In questo senso, la conservazione è oggi sempre più il luogo privilegiato dell’innovazione (Carta di Gubbio, 1990).
La rete dei Luoghi che Dislivelli vuole costruire non è un sistema a sé stante, è piuttosto un paradigma con cui affrontare i problemi della montagna; o almeno quelli tra essi che hanno a che fare con la “qualità del territorio”. Espressione quanto mai vaga, che tuttavia ha trovato riscontro nella “qualità del paesaggio” propugnata dalla Convenzione sopra citata, riferita agli aspetti non solo scenici e percettivi, ma economici, sociali e culturali del “contesto di vita” delle popolazioni. E’ in questa dimensione più ampia i Luoghi possono tentare di affrontare concretamente i progetti di conservazione creativa nei territori montani. Nelle esperienze di architettura montana degli ultimi decenni, troppo spesso l’asserita continuità col passato si è tradotta in accozzaglie mistificanti di “citazioni” deliranti (con l’uso improprio del legno, della pietra, delle “lose” di copertura). Ma all’opposto le pretese di “modernità” si sono spesso esaurite (soprattutto con i grandi impianti e le stazioni sportive) in contrapposizioni violente, immotivate e devastanti, che hanno lasciato ferite incurabili nei paesaggi alpini. Non esistono ricette. Né il richiamo alla bellezza, né il richiamo alla memoria e alla forza delle tradizioni, né la bandiera del “nuovo”sono di per sé sufficienti a orientare i progetti di conservazione creativa  dei paesaggi alpini.
Roberto Gambino