Alla fine del 2022 è stato pubblicato dall’editore Ronzani il volume “Mario Rigoni Stern. Cento anni di etica civile, letteratura, storia e natura”, curato con la consueta dedizione e passione da Giuseppe Mendicino. Il libro raccoglie i contributi di oltre venti tra studiosi, scrittori, giornalisti, artisti e intellettuali che, da varie prospettive e secondo il loro personale rapporto con l’autore asiaghese, avevano partecipato al convegno per la celebrazione del centenario della nascita del Sergente, tenutosi proprio nel suo paese natale a ottobre del 2021. Uno di loro era Paolo Cognetti, da sempre molto legato a Rigoni Stern sia dal punto di vista letterario e stilistico, sia rispetto alla dimensione etica e umana dello scrittore che il primo giorno di novembre del 2021 avrebbe compiuto cento anni.
Paolo, quale messaggio pubblico è passato secondo te a seguito delle celebrazioni del centenario di Mario Rigoni Stern e grazie anche alla pubblicazione di questo volume collettivo?
La cosa più forte che è passata è l’unione tra il suo ruolo di testimone, la sua forte etica civile e il rapporto con l’ambiente di montagna: si è rafforzata l’idea che l’ambientalismo oggi debba coniugarsi con altri valori, come la non violenza, il rifiuto della guerra, il rispetto dell’altro… Il fatto che Rigoni Stern abbia riunito tutti questi valori nelle sue pagine, in rapporto spesso proprio alla montagna e alla natura, è una bella lezione per i nostri tempi, qualcosa che mantiene attuale e vivo il suo messaggio.
Il movimento dei nuovi montanari e quello oggi in crescita degli “aspiranti montanari” credi che si ispirino in qualche misura a questi valori e a questa etica civile?
Io in realtà conosco solo alcune persone che aspirano a vivere in montagna, ho un angolo visuale particolare rispetto a chi come te studia il fenomeno. Devo dire poi che incontro anche diverse persone che in montagna vogliono andare a farsi gli affari loro, il che è anche legittimo, per carità… Io invece il valore politico dell’andare a vivere in montagna lo sento molto, a livello personale, ma è possibile che sia qualcosa che appartiene solo ad alcuni, non di così condiviso.
Nel tuo libro “Le otto montagne”, e nel film che ne è scaturito, ci sono alcuni elementi-chiave, a mio avviso, che si ritrovano in qualche misura anche nell’opera e nell’etica di Rigoni Stern, o forse che proprio da lì provengono. Mi riferisco in particolare al tema della casa, a quello dell’amicizia, al rapporto padri-figli e, non ultimo, alla dialettica tra l’andare per il mondo, oltre i confini, e il restare o il ritornare a baita, tra le proprie montagne. Che cosa ne pensi?
La casa è il punto di partenza del mio romanzo: il primo nocciolo della storia è l’immagine dei due amici che ricostruiscono il rudere di una baita. Vivendo in montagna, la presenza dei ruderi, delle rovine di un mondo che non c’è più mi ha sempre colpito molto. Ho sempre sentito forte il significato di vivere in un luogo dove prima c’erano una cultura e una civiltà che ora non ci sono più e di cui le case vuote sono un segno evidente. I due amici della mia storia, Pietro e Bruno, ricostruiscono una casa in memoria non solo del padre di uno di loro ma anche di una società che è andata scomparendo. La casa è un elemento narrativo che ritrovo decisamente in Rigoni Stern, per esempio nel suo racconto “Le quattro case”. Una di queste, quella che a me piace di più, Mario racconta di averla disegnata quando era prigioniero nel lager, con un mozzicone di matita su un pezzo di carta; era la casa che sognava di costruirsi con le sue stesse mani, quando sarebbe tornato in Altipiano alla fine della guerra: una specie di tana, fatta di tronchi, in mezzo al bosco. Questa casa immaginata era diventata come un rifugio della mente per lui, uno spazio dove ripararsi da tutto quello che di brutto gli stava succedendo in quei mesi terribili. E io questa sua idea l’ho presa e messa in scena, direi, nella mia storia.
Questa dimensione mi sembra anche tipica della baita che Pietro e Bruno risistemano sui monti della Valle d’Aosta: una casa-rifugio, appartata in alto, che protegge e ripara ma che alla fine rischia anche di tagliare fuori dal mondo chi la abita…
Sì, una casa che è anzitutto un monumento alla loro amicizia, come si vede molto bene nelle scene del film in cui loro da bambini giocano con i sassi e con i legni a costruire una diga nel torrente e poi da adulti lavorano insieme nel cantiere della baita, con gesti simili, usando sempre pietra e legno per rimettere su i muri, rifare il tetto. La baita è il rifugio della loro ritrovata amicizia ma alla fine diventa lo spazio della alienazione per Bruno, del rifiuto del mondo, della chiusura in se stesso. Io li ho vissuti tutti e due questi aspetti della montagna: il lato al sole, la montagna dove si coltivano l’amicizia e i rapporti con gli altri, e quello buio, della solitudine, della rabbia, e anche dell’autolesionismo, alla fine.
Questa ambivalenza della casa, tra apertura e chiusura, si ritrova, magari non così esplicitata, anche in certi passaggi dell’opera di Rigoni Stern. Per esempio, nel tuo intervento contenuto nel volume curato da Mendicino, tu fai riferimento, già dal titolo, alle sfaccettature di significato e alla polisemia di questo luogo così intimo, parlando di case, isbe, tane… La casa – tu scrivi – per Mario è sacra.
Mario scrive di tante case e baite nei suoi racconti: per esempio, quella in cui entra da soldato col fucile a tracolla, al di là del passo del Piccolo San Bernardo, durante i mesi di guerra dell’Italia contro la Francia. Una casa povera, i cui abitanti erano dovuti fuggire all’improvviso, lasciando la polenta nella pentola sul focolare spento e dei vestiti sparsi sul pavimento. Nell’entrare così in quel luogo privato, Mario si vergogna, sente di avere lui stesso commesso una violenza, qualcosa di profondamente sbagliato. Poi ci sono le isbe russe, e il famoso episodio raccontato nel Sergente, dell’ospitalità che aveva trovato in una di esse, semplicemente bussando alla porta, durante i combattimenti di Nikolajewka. Però Rigoni Stern nella sua opera non ha mai voluto raccontare il lato oscuro della montagna: la rabbia, la violenza, l’alcolismo. Quello di cui parla invece un altro scrittore come Mauro Corona e che non di rado succede proprio dentro le case. Per Mario il lato al sole è la montagna tutta, quello in ombra lo identifica piuttosto con la guerra che aveva vissuto.
Un altro tema etico importante per Rigoni Stern – e centrale nel tuo “Le otto montagne” – è quello dell’amicizia tra gli uomini. Mi viene in mente ad esempio quella di Mario bambino col suo compagno di banco, narrata in terza persona ne “Le stagioni di Giacomo”, e che si sviluppa in stretto rapporto con le vicende storiche e sociali dell’Altipiano di Asiago durante il primo dopoguerra. Che etica dell’amicizia caratterizza i tuoi personaggi rispetto a quella che emerge dai racconti di Rigoni?
Io non ho vissuto la guerra, mentre i rapporti tra uomini che Mario racconta sono spesso legati ad essa, agli scontri, alla ritirata di Russia, alla prigionia… Però credo di aver ripreso la dimensione dello spazio esterno, dell’avventura, del paesaggio, della wilderness anche, come dimensione in cui si costruisce e si sviluppa l’amicizia al maschile. Questo aspetto, etico e letterario al tempo stesso, a me piace molto, anche perché mi riporta alla letteratura americana, a Jack London, a Melville, ma anche al western. A quei rapporti maschili dove tra i due amici e intorno a loro c’è sempre un terzo elemento, il west appunto, o la frontiera, o comunque lo spazio selvaggio e sconfinato. Questo terzo elemento per me è la montagna: l’amicizia tra Pietro e Bruno non esisterebbe senza la montagna. Non sarebbero mai diventati amici a Milano o a Torino: la montagna è come se fosse la terza gamba di uno sgabello, senza cui tutto cadrebbe.
Un terzo tema etico e narrativo nell’opera di Rigoni Stern è il rapporto tra padri e figli o, più in generale, tra chi è venuto prima e chi è arrivato dopo. In che misura ritrovi questo tema, e questo approccio etico, nella tua opera?
In Rigoni Stern compare spesso la guerra dei padri, la Grande Guerra, e quella dei figli, la seconda guerra mondiale: questa esperienza univa le due generazioni, pur nelle differenze, le accomunava per il tipo di esperienza vissuta. Mario era molto legato alle narrazioni della guerra fatte da suo padre, di cui trovava poi tanti segni lasciati in modo drammatico nelle montagne di Asiago. Per cui, quando toccò a lui di essere chiamato a combattere da alpino, sentì di rivivere esperienze simili. Nel mio caso, invece, sia a livello personale che nel mio romanzo, si tratta di un confronto tra due generazioni tra loro molto diverse: quella dei padri che abbandonano la campagna, per andare a vivere e lavorare nella grande città, aderendo a un modello ben definito di progresso, individuale e collettivo; e quella di completo smarrimento dei loro figli, che non sanno più che strada prendere, che non ritrovano più neppure un modello da seguire. Una generazione che si deve inventare, coltivando i propri miti e modelli presi qua e là, come si vede molto bene nel film “Le otto montagne” rispetto alla vicenda di Pietro, alla sua ricerca personale.
Eppure forse i figli della generazione di Pietro alla fine ritrovano in qualche modo i padri proprio nei sogni che questi avevano coltivato a lungo, senza riuscire a realizzarli, come quella baita da ricostruire in montagna. Forse per queste generazioni così distanti per biografie l’incontro può avvenire negli immaginari più che nelle esperienze vissute…
Può essere. Io qui non riesco a non pensare a mio padre. Ne parliamo ogni tanto, lui ed io, di come abbiamo vissuto traiettorie veramente distanti. Io so che mio padre aveva coltivato un suo talento per la scrittura, e che a me questo viene da lui; so che per carattere poteva tranquillamente essere un uomo che poteva fare un percorso artistico o comunque non convenzionale. E invece mi ha sempre colpito come lui abbia deciso di andare diritto per la sua vita, con la sua carriera, 35 anni in azienda, senza avere mai sgarrato, mai uscito di strada. Ma questo sono convinto che alla fine non dipenda tanto da lui quanto piuttosto dall’epoca in cui è vissuto, dalle condizioni sociali e culturali di quel periodo storico.
Andrea Membretti