Sulla carta gli ecomusei sono istituzioni dalle grandi potenzialità: catalizzatori di energie locali, che, stimolate dalla sua presenza e grazie agli strumenti e alle professionalità che l’ecomuseo mette a disposizione, possono dare vita a ricerche che l’ente coordina ed eventualmente promuove anche al di fuori della realtà locale. Nel panorama degli studi sulla montagna, gli ecomusei sono quindi dei candidati perfetti a trait d’union tra la ricerca associazionistica locale, “spontanea”, dal basso, e i lavori di carattere accademico. Ma funziona davvero e dovunque così? Realmente, come voleva Georges-Henri Rivière, uno dei padri degli ecomusei, “l’ecomuseo è uno strumento che un’istituzione e una popolazione concepiscono, costruiscono e governano insieme”?
«La dichiarazione di Rivière è molto bella – spiega l’antropologo Marco Aime –, ma non sempre le cose vanno così. In molti casi musei ed ecomusei nascono più dall’alto che dal basso. Credo che la differenza stia nel maggiore o minor grado di contributo e di partecipazione fornito dalla popolazione locale. Non sempre i locali vengono coinvolti nella progettazione e nelle attività proposte, anche perché, nella maggior parte dei casi, un museo risponde più, da un lato, alle esigenze dei turisti, che con un certo approccio un po’ nostalgico vogliono riscoprire la montagna “di una volta”; dall’altro a quelle di locali che hanno fatto esperienze altrove, in città o fuori dal paese, e che in qualche modo vogliono ricostruire le loro radici, rinforzare il senso di appartenenza. Tutte cose che spesso non appartengono ai locali, che non ne sentono il bisogno, in quanto vivono quotidianamente quella realtà rappresentata dal e nel museo».
Spesso gli antropologi figurano tra gli esperti chiamati a dare consulenze sugli ecomusei. Ma in che misura le loro ricerche e le loro considerazioni influiscono sulla riscoperta o, in alcuni casi, sulla reinvenzione delle tradizioni?
«Accade anche che alcuni antropologi “vecchia maniera” si facciano paladini delle tradizioni e ne favoriscano la riproposizione, magari anche con qualche forzatura – continua Aime –. Oggi credo che la maggior parte degli antropologi siano consci dei processi di costruzione delle tradizioni messi in atto dalle comunità e che pertanto tendano piuttosto a metterle in luce, anche se questo atteggiamento può andare contro una certa immagine: quella più cara ai turisti».
“Patrimonio, territorio, comunità” sono le tre parole chiave degli ecomusei piemontesi: oggi esprimono un programma museale ancora attuale?
«Patrimonio per me è una parola pericolosa – spiega l’antropologo –: quando un’espressione culturale diventa patrimonio, significa che viene congelata per essere tutelata, sottraendola al flusso del tempo e alle inevitabili trasformazioni. Territorio è un termine molto vago, che a volte serve a fare un po’ di ecologia a buon mercato. Occorre specificare cosa si intende per territorio: una semplice definizione amministrativa o un ecosistema? Comunità è invece un concetto che ha subito molte trasformazioni di significato nella storia e che da un lato sa di caldo protettivo, dall’altro di mondo arretrato, chiuso, che si contrappone alle società di contratto. Paradossalmente, mai si è parlato tanto di comunità se non da quando la comunità ha cominciato a indebolirsi e scomparire».
Gli ecomusei possono essere considerati una risorsa per la ricerca sulla montagna? A quali condizioni?
«Possono essere considerati una risorsa per la ricerca sulle Alpi se li si considera all’interno di un processo di mutamento sociale, politico e culturale della montagna. Al di là del loro effetto in quanto ecomusei, è già di per sé interessante studiare i processi che hanno condotto a pensarli, progettarli e idearli…».
In effetti la realtà degli ecomusei alpini piemontesi è variegata. Ma una grossa ipoteca pesa su queste istituzioni, indipendentemente dal successo del loro operato: i recenti tagli ai parchi regionali rischiano di limitare, se non di cancellare, l’ormai più che decennale lavoro svolto da molti ecomusei con le popolazioni locali. Un patrimonio di competenze e di fiducia maturate sul lungo periodo è così minacciato dalla mancanza di risorse. Nei parchi, come dappertutto in Italia, i settori su cui si è disposti a tagliare con meno rimpianti sono la cultura e la ricerca: e gli ecomusei, che tentano di tenere insieme entrambi gli aspetti, sono così due volte importanti e fragili.
Irene Borgna