Tra le attività agricole di montagna, quella dell’allevatore è una delle più tradizionali ed antiche, ma in tempo di crisi economica e sociale viene riproposta come possibile via alternativa a mestieri che sono sempre meno in grado di offrire sbocchi sicuri e allettanti.
È innegabile la componente emotiva che spinge a scegliere il lavoro dell’allevatore: sia praticandolo come continuazione dell’attività di famiglia, sia avvicinandosi per scelta, è fondamentale non soltanto l’amore per la montagna intesa come ambiente, spazio, territorio, ma soprattutto la passione per gli animali. È questo il sentimento che permette di non vivere come un’imposizione il vincolo costante che comportano la cura e l’alimentazione del bestiame domestico.
Nelle vallate alpine piemontesi si possono incontrare decine e decine di giovani imprenditori agricoli che vivono e lavorano come allevatori. Le storie che ci raccontano sono molto diverse, anche se accomunate da un elemento comune.
Tra chi prosegue la tradizione di famiglia, sono particolarmente incoraggianti le esperienze di chi ha saputo rinnovarsi: «Volevo fare questo lavoro, ma anche rimanere qui. È per questo che ho spinto affinché prendessimo questa strada. Aprire l’agriturismo giusto in tempo per le Olimpiadi è stata una soddisfazione grandissima, oltre che un’ottima scelta», dice Francesca (1987) in frazione Grand Puy di Pragelato (To).
Ma non ovunque la volontà di rendere attuale un mestiere antico trova un terreno fertile: «Un altro problema è quello della gente di montagna, la mentalità. Fa strano e fa anche gelosia vedere un giovane che fa quello che i loro figli non hanno fatto. Parlano alle spalle e poi magari il prato da pascolare con le bestie non te lo danno», commenta Mattia (1991) a Cantoira (To).
C’è però anche chi non riesce a dare il via a un’attività in proprio, oppure, dopo anni di sacrifici, arriva ad ammettere la propria sconfitta:
«Faccio il garzone d’estate e d’inverno, vado ad aiutare a mungere. Vorrei trovare una stalla in affitto, ma non ce ne sono. Non avevo terreni a sufficienza per fare le domande per l’insediamento giovani e così contributi non ne ho presi. Il futuro… mah?», racconta Stefano (1992) di Settimo Vittone (To),
Pur esistendo una politica che dovrebbe venire incontro alle esigenze di chi opera nelle Terre Alte, la realtà mostra come l’azienda situata in montagna abbia gli stessi vincoli e necessità burocratiche di quella di pianura, in aggiunta alle difficoltà e spese aggiuntive dovute alla collocazione territoriale più disagiata.
«L’azienda c’era già e fare il formaggio mi piace molto, però non pensavo di incontrare tante difficoltà dal punto di vista della burocrazia. Il piano regolatore di questo Comune non consente di ampliare le aree produttive. (…) Li metterei volentieri, i pannelli solari sulla stalla, ma non riesco nemmeno a pagarmi la stalla, altroché pannelli! Quindi sono punti in meno e non entri nelle graduatorie…», spiega Marta (1980), residente a Sambuco (Cn).
Inoltre, la politica degli aiuti pubblici ha fortemente influenzato negativamente il mercato zootecnico: «I contributi hanno falsato l’economia dell’agricoltura. Anche il commerciante ti paga meno perché tanto sa che su quella bestia tu prenderai il contributo», constata Marco (1985) di Chiaverano (To).
A fronte di esperienze positive e risultati concretizzati, non bisogna però dimenticare le parole di chi si accorge, giorno dopo giorno, come sia difficile portare avanti questo mestiere. Spese, redditi esigui, difficoltà burocratiche, una realtà che può essere anche molto diversa da quella che si era sognata, problemi che annullano le gratificazioni del vivere e lavorare in montagna: «Mi sa che dovremo vendere gli animali, non ce la facciamo ad andare avanti», ammette amaramente su Facebook una donna che dalla pianura si era trasferita in una valle del Torinese cercando di portare avanti progetti di vita e lavoro.
I genitori dei giovani allevatori di oggi sono concordi nell’affermare che questa generazione abbia intrapreso un ritorno al mestiere di allevatore di montagna, anche come risposta alla crisi e al crollo dell’idea del posto fisso, ma solo facendo un bilancio tra una decina d’anni si potrà veramente dire se era questo il mestiere in grado di superare e sconfiggere le attuali difficoltà economiche e sociali.
Marzia Verona
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http://diquestolavoromipiacetutto.wordpress.com