Intervista a Paolo Cognetti di Andrea Membretti

Oggi io e Paolo non siamo in montagna. Come per altre conversazioni che abbiamo avuto in passato, è Milano a starci intorno. Eppure, mentre parliamo, lo sguardo va sempre là, verso i ghiacciai del Monte Rosa, che ancora brillano al sole di Dicembre.

Paolo, dopo tanti anni dalla tua esperienza giovanile alla scuola di cinema di Milano, e dopo i successi coi tuoi libri, sei tornato alla dimensione del film, con “Fiore mio” dedicato al Monte Rosa.

Sì, mi era piaciuta molto l’esperienza del documentario sull’Alaska, a cui avevo partecipato come personaggio: fare un viaggio lavorando, raccontando. Avevo voglia di riprendere da lì ma questa volta la regia l’ho fatta io, come ideale prosecuzione di “Sogni di grande nord”. Forse questo sarà il secondo capitolo di una trilogia che ho in mente, con un prossimo capitolo che dovrebbe essere in Nepal.

Quale legame c’è tra “Fiore mio” e il film “Le otto montagne”, tratto dal tuo romanzo più noto?

Un rapporto stretto, a partire da chi ha lavorato con me in questo film: mettendo insieme la troupe, ho subito coinvolto un co-produttore belga e abbiamo pensato insieme a Ruben Impens, che già aveva curato la fotografia per “Le otto montagne”; lui si era già affezionato molto a Estoul e alla Val d’Aosta e ha accettato con entusiasmo di lavorare di nuovo insieme, curando la fotografia del nuovo film. Mentre al suono ho chiamato il mio caro amico Paolo Benvenuti, recentemente premiato con l’Oscar europeo per “Il buco” di Michelangelo Frammartino. Suono e fotografia sono stati fondamentali in questo lavoro.

Un film sulla montagna dopo la neve o addirittura dopo il ghiaccio…

E’ un film sulla montagna che cambia: la montagna fisica e i suoi abitanti. Ci sono tanti giovani, anche stranieri: non trovi la classica figura del rifugista che ti aspettavi anni fa. La montagna cambia come tutto il resto ma i cambiamenti non sono mai solo negativi: noi la osserviamo e vediamo che cosa succede.

E’ un punto di vista urbano, il tuo?

Io mi sento un ospite molto affezionato alla montagna ma non diventerò mai un montanaro perché essere montanari vuol dire esserci nati, cresciuti, conoscere certe dinamiche sociali e familiari. Io ho la formazione di un cittadino che però conosce la montagna sin da quando era piccolo, e la rispetta.

L’acqua, elemento che connette e lega i vari elementi dell’ecosistema montano. Nel film ripercorri questo legame, minacciato dal cambiamento del clima.

L’acqua è la vita della montagna, si sa: da lì parte tutto il ciclo della vita. Vedere la montagna asciutta vuol dire vedere la sua trasformazione in un deserto. Probabilmente diverrà un bellissimo deserto ma chi ci abita dovrà adeguarsi, adattarsi al cambiamento.

Nel tuo film compaiono diversi riferimenti al buddismo: le bandierine che attacchi sul tetto della tua baita, le parole dello sherpa che lavora in un rifugio, un rituale che viene rappresentato in alta quota. Quanto conta la spiritualità in questa tua narrazione della montagna che cambia?

La montagna induce alla spiritualità. Questo succede quasi a tutti. Salire in alta montagna, specie se da soli, ti porta un senso di commozione e di comunicazione con l’universo. Nel buddismo, più che in altre religioni, ho trovato i valori che si intonano con quel tipo di sentimento: la pace, l’armonia, la ricerca dell’equilibrio, il rispetto. Non so se considerami buddista, non mi interessa neppure più di tanto saperlo, ma lì trovo dei valori che mi piacciono, in cui mi riconosco.

Diversamente da altre posizioni religiose rispetto alla montagna: mi riferisco alla recente polemica sulle croci in vetta.

A me le croci di vetta non piacciono. Poi possiamo decidere di lasciare quelle storiche, ma sono contrario a metterne di nuove e ne toglierei anche alcune. Le bandierine buddiste invece si sciolgono al vento, sono una presenza temporanea.

Nel viaggio verso l’acqua e il ghiacciaio che compi nel film, incontri diverse persone che hanno scelto di vivere in alta montagna, sopra i duemila metri e anche molto oltre: che equilibrio si può trovare lassù, di vita e rispetto all’ambiente?

Non ho fatto un film sui “nuovi montanari”, su quanti vanno a vivere stabilmente in media montagna. Ho voluto raccontare piuttosto gli abitanti temporanei dell’alta quota, e mi piaceva che fossero tutti diversi: anziani, giovani, italiani, stranieri, uomini, donne.. Tutte persone che in realtà io conosco da anni e che parte del tempo vivono più in basso, dove ritrovano i problemi dei comuni mortali, diversamente da lassù.

Un pò come il rapace che resta sospeso in alto, in una scena del tuo film. Ma che alla fine deve scendere.

Sì, sono persone che vivono tre mesi di osservazione, ascolto della montagna, grande concentrazione. In alto. Se incontri un rifugista alla fine della stagione estiva, trovi un piccolo saggio. Anche se poi comunque tocca scendere e fare i conti con quello che hai lasciato giù in basso.

Oggi, trattando di cambiamento climatico, parliamo anche di “migrazioni verticali”, di un potenziale movimento crescente verso l’alto dalle città. Come lo vedi?

Nel film non ne parlo ma è un tema che seguo. Non credo che la cosa più difficile per chi viene dalle città sia trovare una casetta o imparare a farsi l’orto e neppure avere relazioni con le persone del posto. La grossa sfida è quella di trovare un panorama culturale minimamente interessante, specie per chi è abituato in città a incontrare gente, a trovare stimoli di questo tipo. In montagna puoi fare sport, camminare, farti una famiglia, coltivare il tuo orto. Ma fuori da questo, è molto dura. Ti posso dire della mia esperienza da milanese: Milano è una città bella, perché offre una varietà umana sconfinata; se cerchi, puoi trovare le persone che ti somigliano, con cui avere una relazione. In montagna invece ti prendi quello che c’è e spesso quel che c’è non è proprio il tipo di umanità che desideri.

Laki, ił tuo cane, co-protagonsta nel film; e gli altri animali, i selvatici: quanto contano, nel vivere la montagna che cambia?

Con Laki c’è una forte comunicazione non verbale, stiamo insieme da dodici anni. Ci osserviamo tutto il tempo: lui mi segue, a volte mi indica la strada, altre volte mi ritrova. Tra di noi c’è un affetto, anche fisico, molto forte. Con i selvatici, invece, vivo un rapporto a distanza. A me dispiace sempre che loro ci temano: io non gli ho fatto niente, e vorrei essere avvicinato dalla marmotta o dallo stambecco. Ma per colpa dei mei co-umani, loro ci temono e scappano al nostro passaggio, e questo mi rattrista molto. 

Il corpo, e il movimento nello spazio montano, hanno un posto speciale in “Fiore mio”: le immagini di te che cammini, lo yoga davanti al rifugio, le mani nell’acqua gelata. Quanto conta il corpo nel rapporto con le terre alte?

Volevo che il corpo ci fosse, in primo piano, perché la montagna solitamente richiede fatica: la fatica delle gambe, del cuore e dei polmoni; l’uso delle mani, sul legno, sulla roccia. A me sembra sempre che in montagna il corpo rinasca. Mentre in città è un oggetto quasi inutile, ci serve a ben poco o addirittura ci pesa, salendo viene stimolato, trova un diverso rapporto e contatto con la materia. In montagna riprendiamo possesso del nostro corpo: è un modo per essere di nuovo corpo.

Il tuo corpo e la sua immagine sono protagonisti nel film?

No, io non sono il protagonista del film, non è quello che voglio. Piuttosto mi sento una guida, qualcuno che ti accompagna in alto. Se hai notato, io piano piano durante il film sparisco: all’inizio ci sono diverse scene con me da solo, poi, un pò per volta, io lascio spazio agli altri che incontro, passo in secondo piano, sullo sfondo. E alla fine scompaio. Era questo che volevo fare. Anche le mie parole diminuiscono. Se non ho espresso, come gli altri, il mio desiderio alla fine del film, è perché mi sembrava pleonastico. Se lo avessi fatto, avrei detto che io vorrei scomparire, dentro questa montagna.