Gli inventari delle foreste ci parlano oggi di grandi disponibilità di materie prime e di nuove superfici boschive che avanzano sui vecchi coltivi. Ma rimane sempre il problema dei proprietari, spesso troppi, lontani, a volte ignari delle loro proprietà, che non permettono di sfruttare queste materie prime in modo efficiente per le città e sostenibile per la montagna. Ed è proprio trovare la chiave giusta per rendere disponibili tali fondi la nuova sfida da raccogliere. Perché se da una parte le foreste comunali da secoli devono erogare beni da offrire al mercato, rispondere alle necessità dei territori, dare riparo e conforto alla biodiversità, servire da scenografia e transito al turismo sia invernale che estivo, quelle private rischiano di perdersi. Napoleone fece diventare le foreste delle collettività delle foreste dei comuni. Ora qualcuno dovrà immaginare come far diventare le foreste private dei beni per la collettività mettendole a disposizione delle filiere pronte ad aprire a nuovi mercati. Associazionismo fondiario, riorganizzazione della proprietà, ruoli pubblici delle foreste, paesaggio, biodiversità, protezione dai rischi naturali, tutela dei terreni saldi, misure specifiche del PSR, Fondi ATO per Piani di manutenzione Ordinaria del territorio. Sono tutte sfide in attesa di nuovi alfabeti in grado di far partire finalmente dialoghi fruttuosi tra città e montagna. Perché le foreste non hanno bisogno di noi, ma siamo noi ad aver bisogno di loro.

Ma come siamo arrivati a questa posizione di stallo che non ci permette una pianificazione dello sfruttamento sostenibile della risorsa legno? Forse un breve escursus storico sul rapporto tra uomo e foresta sulle Alpi e tra montagna e città può aiutarci a capirlo.

Le foreste sulle Alpi hanno contraddistinto il rapporto tra uomo e territorio. Un rapporto utilitaristico, a senso unico, un serbatoio di materia prima facilmente disponibile per le costruzioni o per alimentare i camini domestici. Il legno alpino tuttavia è da sempre materia prima disponibile ma di difficile trasporto. E infatti fino alla fine del 1700 si muove poco, restando una risorsa “a km 0”, prevalentemente utilizzata per necessità locali. Solo con la costruzione delle prime strade di collegamento in Epoca napoleonica comincia a viaggiare, muovendosi sotto forma di carbone verso le città. Nel 1330 poi (primo documento di Oulx, Val di Susa) per la prima volta alle foreste viene riconosciuta anche l’importanza per i suoi servizi ecosistemici, dal momento che grazie a una loro accorta gestione garantiscono il corretto scorrimento delle acque e la stabilità dei versanti. Con il Trattato di Utrecht del 1713 le filiere locali lasciano il posto a pianificazioni economiche e politiche in cui le foreste devono servire ad alimentare i forti e le guarnigioni con legname da opera, carbone e legna da ardere, oltre a soddisfare i bisogni della corte. Finisce così il “km 0”, le filiere da locali diventano al servizio di necessità sovra ordinate e superiori, e le regie patenti Sabaude sono lo strumento per cercare nuovi equilibri tra i diversi territori. Verso la seconda metà del 1800 la rete di infrastrutture si arricchisce in efficienza e possibilità, le ferrovie rendono più vicine le Alpi alle città, e le foreste forniscono materie prime che raggiungono i centri di lavorazioni dislocati nei fondovalle e nelle periferie della città. Un’economia fatta di boscaioli, trasportatori, segherie, vivai e piccole imprese di trasformazione. Un’economia che fornisce materie prime per le macchine a vapore e per l’edilizia di un territorio in rapido cambiamento. La materia prima legno garantiva i bilanci dei comuni alpini più ricchi di foreste; si sviluppa in questi anni una politica legate alle foreste, viene istituito il vincolo idrogeologico, barriera alla conquista delle terre al pascolo, e il bosco viene riconosciuto come bene che eroga servizi di pubblica e vitale utilità e non solo più materie prime. Il mercato del legno garantisce un reddito adeguato fino all’incirca alla fine della Seconda guerra mondiale, quando un metro cubo di legname valeva circa un mese di stipendio. Mentre in seguito, e ancora oggi, lo stesso quantitativo di legname vale poco più di qualche ora di lavoro. Questo perché nel frattempo dal Secondo dopoguerra le fabbriche prosciugano i versanti delle Alpi, le persone scendono a valle in cerca di un reddito stabile e le montagne diventano riserve di tutela degli ecosistemi, con scelte determinate in uffici lontani. Le foreste diventano luoghi in cui la contemplazione e l’osservazione prendono il posto della fatica e nascono nuovi mestieri legati non solo più alle materie prime ma anche alla naturalità, biodiversità, ai beni ambientali e paesaggistici. Si tratta di filiere in cui nessuno però trova il costo giusto da farsi pagare e questi beni escono dal mercato. Rimangono però i rischi naturali e le attese di protezione in versanti non più abitati da persone, ma ricchi di infrastrutture e case da difendere e tutelare, luoghi in cui le scelte urbanistiche degli anni bui hanno fatto a gara nel costruire in luoghi pericolosi. Equilibri difficili, in cui le filiere si arricchiscono via via di nuovi mercati come quello del legname per produzione di energia, il legname proveniente da foreste gestite in forma sostenibile, la bioedilizia, il legname di qualità.

Arriviamo all’oggi, in cui le nascenti filiere locali del legno che si sviluppano all’interno delle vallate sopravvivono solo se oltre alle materie prime vendono anche servizi (calorie, gestione integrata del territorio, servizi tecnici innovativi). Per far rimanere sulle Alpi il valore aggiunto delle foreste, queste realtà imprenditoriali devono mostrarsi al passo con i tempi e diversificare l’offerta. Se si limitano a commercializzare la materia prima, valorizzando solamente le filiere del trasporto del legname, non risolvono i problemi delle Alpi. E anche se forniscono solo mano d’opera specializzata non è abbastanza, perché ci sarebbe una guerra tra poveri nel giocare al ribasso per accaparrarsi il lavoro. A questo riguardo sarebbe utile a tutti rivedere il “Cammino della Speranza”, film di Germi del 1950.
Alberto Dotta, Direttore del Consorzio forestale Alta Valle di Susa (To)