Tra il 29 ottobre e il 2 novembre 2018 una successione di eventi meteorologici di sconvolgente forza ha investito il Veneto, il Trentino, l’Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia. Le zone più colpite sono state il feltrino, l’agordino, lo zoldano, il Cadore ed il Comelico in provincia di Belluno; la Val di Sole, la valle di Fassa e la val di Fiemme in Trentino; la val d’Ega, la val Badia, la val d’Ultimo, la bassa Atesina e la val Pusteria in Aldo Adige; tutta la Carnia in F.-V.G. L’azione combinata delle piogge assieme a quella del vento, ha fatto sì che si parlasse di evento eccezionale, tanto da legarlo in maniera indissolubile a dinamiche atmosferiche più ampie chiamate col nome di cambiamento climatico. Inoltre, si ricorda altresì che, per quanto riguarda il bellunese, pochi giorni prima, le Pale di San Lucano hanno visto un incendio tra i più grandi della storia della montagna bellunese: quasi un migliaio di ha di bosco andati bruciati.
L’attenzione mediatica, arrivata con colpevole ritardo sulle testate nazionali, è stata in prevalenza concentrata sui danni che ha subito il patrimonio boschivo. In effetti, sarà difficile dimenticare quelle immagini di intere porzioni di bosco rase al suolo, quei tronchi divelti e allineati in maniera ordinata, così in contrasto con la sensazione generale di caos che invece era così tangibile e che ha colto tutti impreparati. I danni al bosco sono stati così ingenti da essere equiparati addirittura a quelli del primo conflitto bellico mondiale. Se poi contestualizziamo questi boschi nelle Dolomiti, anche da un punto di vista emotivo, l’effetto è ancora maggiore. Il delicato rapporto estetico-percettivo-geologico tra i picchi rocciosi e i fondovalle (Cesare Lasen e Annibale Salsa sul sito della Fondazione Unesco, 2018), che ha contribuito a rendere le Dolomiti patrimonio Unesco, è stato fortemente compromesso in molte situazioni. Non solo a livello percettivo, ma vi è la problematica del rischio di instabilità dei versanti.
Tuttavia, accogliendo le parole di Aldo Bonomi «l’attenzione al territorio è stata posta nella sua accezione di “terra”, di suoli e di acque, ma il territorio è soprattutto una costruzione sociale». (Tutto lo sviluppo che verrà dall’ambiente, ne Il Sole 24 ore, 13/11/2018), accanto al tema forestale assurge a fondamentale il tema della presenza e della permanenza dell’uomo in montagna. Continua Bonomi: «Non c’è città ricca se non c’è campagna florida», e per quanto riguarda il Veneto, il rapporto tra la provincia di Belluno e la pianura meriterebbe un’attenzione speciale. Ad ogni modo, l’ultimo avvenimento deve essere indagato anche, e soprattutto quindi, dal punto di vista dell’abitare in montagna, cosa rende abitabile la montagna? Essenzialmente la presenza di: infrastrutture viarie, infrastrutture energetiche e strutture edilizie. Sebbene a livelli diversi, questi tre macro-gruppi sono usciti sensibilmente compromessi dagli ultimi avvenimenti climatici. Progettazione errata? Pianificazione superficiale? Sviluppo incontrollato? Mancanza di manutenzione? Tecnologia non idonea o adeguata? Quali le cause? A oggi è troppo presto quantificare i danni o le percentuali dei patrimoni danneggiati, ad ogni modo si può tracciare un contorno verosimile a livello qualitativo. Per quanto riguarda la montagna bellunese, cui mi riferisco maggiormente poiché qui vivo, queste sono state le situazioni: strade collassate o invase da materiale detritico hanno isolato fisicamente intere frazioni; reti telefoniche mute, sia fisse che mobili, hanno isolato relazionalmente le persone; linee elettriche spezzate hanno lasciato al buio e al freddo più di centomila utenze; coperture e lattonerie divelte, primi piani allagati, finestre frantumate hanno esposto le persone a vari tipi di precarietà.
Se si accetta e si è disposti a uscire dal concetto di straordinarietà per entrare in una forma mentis di ordinarietà (Lasen 2018, ivi), in cui questi eventi possono verificarsi con maggiore frequenza, mettendoci di fronte a diverse condizioni non solo climatiche ma ambientali, si deve entrare giocoforza in una logica di pianificazione nuova. E’ auspicabile un progetto di territorio che non releghi la montagna a periferia, o al massimo come a mero erogatore di servizi ecosistemici, ma che la consideri un territorio capace di essere vissuto degnamente da chi ha scelto di viverci e tanto per cominciare, di cercare di rispondere alle domande poste in precedenza. Un punto di partenza potrebbe essere il ritorno alle parole e ai concetti, per esempio, che stanno alla base del Piano Urbanistico del Trentino: «non sappiamo se le occasioni offerte dai grandi centri siano più attraenti dei valori offerti dalla terra di origine, una volta che questa venga convenientemente organizzata ed elevata ad una maggior efficienza e dignità civile. (…) la scelta fra il rimanere o l’emigrare non è di fatto una libera scelta.» (Provincia Autonoma di Trento, Piano urbanistico del Trentino, 1968)
Per far sì che ciò avvenga è indispensabile, oltre a incominciare a coaugulare energie e visioni progettuali intorno alla montagna, favorire anche processi sociali innovativi, perché all’ombra della montagna si nasconde un’altra pericolosissima catastrofe, quella sociale dello spopolamento e dello sradicamento culturale. Indagando esempi in Italia e in Europa si è visto che un territorio esce dalla sua condizione di marginalità solamente quando al suo interno vi siano in atto processi sociali vitali in grado di richiamare l’attenzione dei processi politici.
In conclusione, prima che l’onda emotiva si smorzi definitivamente e che altri temi occupino i nostri immaginari, è fondamentale aprire interrogativi e continuare la discussione di come l’uomo potrà abitare questi territori fragili perché il bosco tornerà a crescere, seppur lentamente, ma la presenza dell’uomo in montagna sarà ancora possibile a queste condizioni?
Margherita Valcanover