“Nel 1994 non eravamo preparati, il maltempo ci aveva colto di sorpresa, negli anni successivi sono stati fatti appositi lavori di rinforzo delle scogliere e dei ponti e questo nel 2016 ci ha permesso di contenere i danni. Quest’anno, purtroppo, l’intensità delle piogge è stata di gran lunga superiore a quella di ventisei anni fa e i danni superano quelli dell’ultima alluvione”.  Queste le dichiarazioni rilasciate alla stampa da Giorgio Ferraris, sindaco di Ormea, nei giorni seguenti l´alluvione di inizio ottobre che ha messo in ginocchio l’Alta Val Tanaro e parte delle Alpi Occidentali. Tre eventi meteorici estremi negli ultimi ventisei anni si sono abbattuti sulla stessa area. Il quantitativo di pioggia caduto in circa 12 ore rilevato dalle stazioni meteo di ARPA Piemonte nelle Alpi liguri è stato equivalente a metà di quella che mediamente cade in un anno intero. (L’evento meteorico del 2-3 ottobre è molto ben illustrato dalla Società Meteorologica Italiana).

La frequenza dei fenomeni meteorici estremi sta aumentando rispetto al passato. In questi ultimi anni abbiamo visto il paesaggio alpino cambiare; cambiamenti che non sono riscontrabili a distanza di anni, ma di giorni. Il rapporto “Analisi del Rischio. I cambiamenti climatici in Italia”, realizzato recentemente dalla Fondazione CMCC, Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, è molto netto nel definire le priorità da affrontare per gestire il rischio climatico.Tra le cinque azioni prioritarie individuate c’è il rischio geo-idrologico. Il rapporto illustra come l’innalzamento della temperatura e l’aumento di fenomeni di precipitazione localizzati nello spazio abbiano un ruolo molto importante nell’aggravare il rischio. Nel primo caso, lo scioglimento di neve, ghiaccio e permafrost indica che le aree maggiormente interessate da variazioni in magnitudo e stagionalità dei fenomeni di dissesto sono le zone alpine e appenniniche. Nel secondo caso, precipitazioni intense contribuiscono a un ulteriore aumento del rischio idraulico per piccoli bacini e del rischio associato a fenomeni franosi superficiali nelle aree con suoli con maggior permeabilità.
Nessuno può sentirsi esente da colpe per quanto riguarda le cause del cambiamento climatico, così come tutti siamo chiamati a fare la nostra parte per tentare di mitigarlo. Ma le Alpi sono più soggette agli effetti ed hanno minori opportunità di incidere in termini di mitigazione rispetto alle aree urbane ed industriali – nonostante dalle Alpi provengano eccellenti esempi di mitigazione, dalle buone pratiche di riduzione dei consumi alle energie rinnovabili alla cattura di CO2 mediante le foreste. E´ doveroso quindi per questo territorio agire con strategie di adattamento.

Piani di adattamento e resilienza sono l’unica risposta possibile, ma non sono così immediati e semplici come si vorrebbe sperare. Non ci sono soluzioni semplicistiche come quelle che vedono, ad esempio, nel dragaggio dei corsi d’acqua una risposta al dissesto; questi, tranne pochissime eccezioni puntiformi, al contrario aumenterebbero la pericolosità degli eventi. Nemmeno si può pensare di affrontare i problemi costruendo invasi in ogni dove. Nella pianificazione territoriale di bacino per la riduzione delle piene, la regolazione degli invasi è solo uno dei fattori, e neppure il più importante. Molto più importante è la destinazione d’uso delle zone a rischio attivo (dove il rischio si genera) e passivo (dove il rischio si manifesta), in specifico delle fasce di pertinenza fluviale e delle aree soggette a frane. Il centro del meccanismo è il concetto di manutenzione intesa come difesa e incentivazione delle tre funzioni, idrologica geomorfologica e pedologica del suolo agricolo e forestale e del reticolo idrografico, dalla montagna alle spiagge. A questo devono concorrere congiuntamente saperi accademici e locali: dall’operaio addetto al miglioramento del suolo e al recupero dei pascoli, all’urbanista, al tecnico forestale, al geologo, all’agricoltore o all’esperto di contabilità ambientale. La risposta a questi bisogni va perciò ricercata nell’interazione e nel dialogo tra i diversi piani di collaborazione interistituzionale e di cooperazione gestionale pubblico-privata, superando conflitti ma anche stereotipi e luoghi comuni.
Alcuni anni fa, al termine di un percorso condotto assieme al Ministero dell’Ambiente in alcuni comuni alpini italiani attivi nel quadro della rete “Alleanza nelle Alpi”, venne dato origine alla “Carta di Budoia”, una dichiarazione volontaria di impegno nell’attuazione di misure di adattamento locale ai cambiamenti climatici nei territori alpini. Un progetto di applicazione della Carta di Budoia in alcune aree pilota viene portato avanti dal Ministero dell’Ambiente e dalla Fondazione Lombardia per l’Ambiente in collaborazione con Eurac Research. Il percorso prevede l’adozione di strategie locali di adattamento climatico; l’attuazione di azioni volte a valutare il rischio potenziale e le opportunità; il miglioramento del livello di comprensione degli impatti climatici a livello locale e lo sviluppo di analisi delle politiche e delle misure (https://bit.ly/38jhjoL).
Un’efficace strategia di adattamento al cambiamento climatico può richiedere scelte talvolta impopolari. Nelle zone colpite è subito partita la ricostruzione, perché giustamente la vita deve continuare. Ma forse non tutto potrà essere ricostruito come prima e nello stesso posto di prima.
Francesco Pastorelli