316 mila soci divisi in 784 tra sezioni e sottosezioni presenti in tutte le regioni e ben 375 rifugi sulle montagne italiane. Sono le impressionanti cifre del Club alpino italiano, l’associazione che da 150 anni unisce tutte le regioni del nostro paese. Numeri da capogiro, difficili da trovare oggi in altre realtà senza dover far ricorso alle community in rete.
E chissà se Quintino Sella, nell’agosto del 1863, mentre ansimava insieme a Giacinto di Saint Robert e al deputato calabrese Giovanni Barracco per raggiungere la vetta del Monviso, pensava che la “creatura” che di lì a poco avrebbe fondato, il 23 ottobre dello stesso anno, sarebbe arrivata a riunire numeri simili. Erano passati appena due anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia, e il Club alpino nasceva con 200 aderenti come la quarta società alpina europea.
«Oggi la sfida che si apre davanti a noi è quella di portare sempre più larghe fasce della popolazione a frequentare la montagna alla nostra maniera», spiega Umberto Martini, Presidente del Cai nazionale. Un modo rispettoso e attento a quelle che sono le peculiarità ambientali, culturali, economiche e sociali delle Terre Alte.

«Solo il 5% del soccorso alpino viene indirizzato a soci Cai – continua il Presidente – e questo vuol dire che un 95% dei frequentatori della montagna non sono ancora nostri affiliati. Commercialmente parlando abbiamo un mercato ancora enorme». Secondo i vertici del Cai ci vuole più coraggio, e l’Associazione deve intraprendere una pesante operazione di maquillage per uscire dall’immagine di un “club di parrucconi” o di “circolo di quattro gatti che rischiano la vita per cose impossibili”. «Dobbiamo proporci all’esterno in maniera nuova – continua Martini – rendere appetibile la montagna utilizzando nuovi e vecchi mezzi di comunicazione, far arrivare le informazioni nelle case, curare il rapporto con la scuola, ottimizzare i collegamenti con le altre associazioni, sempre, naturalmente, senza cambiare l’essenza della proposta Cai. I nostri volontari devono riuscire a “trascinare i giovani” in montagna come “novelli pifferai”».

I giovani, certo. Il vero “tallone d’Achille” di un’associazione che, negli ultimi anni, vede ridursi il numero dei propri soci e innalzarsi fortemente l’età madia degli affiliati. «Siamo uno spaccato della società – sottolinea Umberto Martini – e come tale ne riproponiamo le esigenze. Anche noi siamo vittime della crisi cominciata nel 2008, con una flessione dell’1% dei soci e un calo nella frequentazione dei rifugi e delle diverse attività. E mentre all’inizio la crisi ha spostato molte famiglie sulla scelta della montagna per economizzare l’utilizzo del tempo libero, oggi ha reso difficile anche questa scelta. Ma il nostro futuro sono soprattutto i giovani, cui dobbiamo cercare di portare delle certezze, per creare delle coscienze libere, cercando di formare future generazioni in grado di affrontare il corso della vita e le problematiche che essa comporta».
Future generazioni, perché no, capaci magari anche di intravedere nella montagna un favoloso laboratorio di innovazione per futuri paradigmi culturali. Giovani leve disposte a scommettere su una nuova vita in montagna. «Perché la montagna vive se c’è gente che ci vive – conclude Umberto Martini. E noi da 150 anni siamo anche attenti alle dinamiche che permettono a chi vuole di rimanere a vivere in montagna. Oggi ci giungono indicazioni in controtendenza, dopo decenni di spopolamento delle valli alpine finalmente assistiamo a una timida inversione di tendenza». E augurando ancora al Cai 150 di questi giorni, accanto all’impegno nello sviluppo del marketing nei confronti delle giovani generazioni, potrà forse essere il ripopolamento delle montagne uno dei temi all’ordine del giorno dell’Associazione nei prossimi anni?
Maurizio Dematteis