«L’esistenza di una seconda capanna d’Orny – scrive nel 1932 lo svizzero Édouard Wyss – offre un grande vantaggio perché rende possibile una cernita nel fiotto dei turisti e separa il grano buono dal loglio. Il grano buono è l’alpinista di sangue puro, il loglio è una mescolanza eteroclita di pensionati, giovincelle, padri di famiglia che si sono trascinati dietro l’accozzaglia dei marmocchi strepitanti e ingombranti. Ora gli alpinisti sono fortunatamente separati da quella folla agitata…».
Se la si guarda con occhi meno razzisti di quelli di Wyss, la convivenza tra chi pensa alla scalata e chi punta a fare nottata è uno degli aspetti più singolari della vita di rifugio, e tra i più interessanti. I turisti non hanno mai fretta di andare a dormire, la loro notte è lunga, mentre quella degli alpinisti dura poco. Le cordate si succedono tra la notte e il mattino secondo un rituale di sveglie, preparativi e partenze. Li distingui la sera precedente, durante la cena in rifugio. Un occhio allenato sa individuare la classe e le ambizioni di una cordata dagli atteggiamenti della vigilia, l’attrezzatura che portano negli zaini, il modo di parlare e fare. L’alpinismo è un’attività classista: i bravi sono diversi dai mediocri, e non lo nascondono.
Poi è la notte a fare la differenza. Tra la mezzanotte e l’una si svegliano i primi pretendenti, che affrontano le vie di ghiaccio e i seracchi con la complicità del gelo. Tra le due e le tre partono le cordate dirette ai lunghi itinerari di alta quota, che vogliono togliersi un po’ di cammino con le lampade frontali per essere già alte al sorgere dell’alba. Più tardi si svegliano gli scalatori delle vie di roccia, dove il sole è amico e le valanghe non fanno paura. Infine partono gli escursionisti, che non hanno mai fretta.
Come una coppia di fatto, la cordata ha le sue parole e i suoi segreti. Anche le sue manie. Si parla sottovoce per non svegliare chi dorme, amplificando congetture e misteri. Ogni sveglia è un sogno che diventa azione, e ogni partenza è un mistero che si allontana nel buio.
L’alpinismo è una pratica che si nutre di avventura. La propensione al rischio – di perdersi, di mettersi in gioco – distingue l’alpinista dal turista, dal frequentatore dei sentieri battuti e anche dallo scalatore delle falesie. L’alpinista non è un superuomo, tutt’altro, ma per andare verso l’ignoto bisogna essere un po’ speciali. Non superiori, ma speciali.

* Nato a Torino nel 1957 è stato membro del Gruppo Alta Montagna, istruttore della Scuola nazionale di Alpinismo Giusto Gervasutti, direttore della Scuola nazionale di Scialpinismo della Sucai e continua imperterrito a scalare le Alpi. Giornalista, redattore capo della Rivista della Montagna, ha fondato il mensile Alp e l’edizione italiana della rivista internazionale L’Alpe. Ha scritto decine di libri sui temi della montagna. E’ vicepresidente dell’Associazione Dislivelli.