Cosa fa un educatore? In modo molto sommario il lavoro dell’educatore consiste nel sostenere la crescita delle persone in diversi contesti, come le strutture residenziali, i servizi sociali e la scuola.

Ma, allora, cosa ci fa un educatore in montagna? Le risposte potrebbero essere tante: si riposa dalle fatiche del suo lavoro; oppure suda, masochista come è, e mentre cammina pensa a come risolvere i problemi di lassù… Si allontana per pensare, per capire le cose del suo lavoro in città da una prospettiva diversa.

Tutte possibilità legittime, sia ben chiaro, eppure da alcuni anni nelle nostre ricerche nelle valli del cuneese abbiamo incontrato educatrici ed educatori che in montagna sostano perché lavorano con i giovani di quei territori, oppure perché, più in generale, portano avanti iniziative di sviluppo di comunità con i ragazzi, ma anche con gli adulti e le persone anziane.

Un lavoro educativo che è “ancora più invisibile del solito”, racconta Luca, un educatore in montagna. Già, questa non è una novità, per quella che è, purtroppo a ogni latitudine, una professione strana, bistrattata, poco chiara a chi educatore non è, e soprattutto, poco riconosciuta. Eppure ci pare essenziale: coltivare, con intenzione, legami informali tra le persone che abitano in montagna, ma anche tra i montanari e chi montanaro non è, per dare vita a azioni generative che pongono le persone e la propria comunità al centro di un’azione trasformativa. Lavorare per dare slancio a nuovi inizi. Non programmati prima. È evidente che non stiamo parlando di una prospettiva di lavoro educativo solo “di montagna”, ma ricca di implicazioni prospettiche anche nei nostri frammentati contesti urbani, abitati dalle nostre vite di corsa.

Con la tanta esperienza maturata nel tempo, Paolo, un altro educatore di montagna che coordina un’équipe di operatori nel Saluzzese in provincia di Cuneo, paragona il lavoro educativo che conducono, tra città e montagna, a quello di un gruppo di “elettricisti”: “proviamo a mettere in fase le persone tra loro e con i contesti”.

Insomma, tra gli educatori intervistati in questi anni, il lavoro educativo in ambito montano è soprattutto interpretato come sviluppo di comunità: promozione di legami generativi tra persone e contesti, dove il benessere o le fragilità del singolo non possono che riguardare anche, in modo sistemico, il contesto in cui il singolo vive, stabilendo così una costante e vitale relazione tra persone e ambienti di vita.

Eppure, qualcuno potrebbe obiettare: si fa presto a dire “comunità”! Questo perché, in effetti, siamo davanti a una parola oggi inflazionata, tanto nei documenti internazionali, quanto nelle discussioni quotidiane. Il perché ce lo insegnano da tempo sociologi, filosofi e pedagogisti: si tratta di una parola che evoca contesti accoglienti, ricchi di relazioni calde e protettive. Sembra essere davvero ciò che manca. Eppure, come ha sottolineato Marco Aime, è anche un termine “trappola” che può nascondere insidie pericolose, almeno quanto quell’eccesso di individualismo che si propone di contrastare. Accanto a immagini idilliache che guardano spesso al passato, comunità può portare con sé anche chiusure, autoreferenzialità, con la conseguente lotta serrata tra chi è “noi” e chi è “altro da noi”. La storia ci ricorda che la comunità, talvolta, ha significato (e significa ancora) la perdita dell’individualità, omogeneizzando qualità, talenti e aspettative.

Gli educatori che abbiamo incontrato nelle nostre ricerche, giovani e impegnati nei territori, lo sanno bene e sono attenti a non semplificare un concetto complesso che per loro è anche un particolare modo di intendere il loro lavoro educativo.

Fare lavoro di comunità è innanzitutto una prospettiva, un orizzonte di significato che

significa lavorare insieme e accanto alle persone, intercettando e promuovendo il loro coinvolgimento: incontrare chi abita nei contesti montani, riconoscerne il sapere e connettere le risorse, ad esempio, promuovendo l’aggregazione e il protagonismo dei più giovani, oppure creando le condizioni affinché una persona anziana possa vivere nella sua borgata finché le è possibile. Si tratta di un educatore che coltiva i legami e mantiene i presidi territoriali, in prima persona o attraverso il lavoro di rete.

Sembrerà questo il famoso “segreto” (pedagogico) di Pulcinella, ma forse così tanto dato per scontato che nella frenesia contemporanea sembra finire troppo spesso nel dimenticatoio collettivo: il lavoro educativo è innanzitutto stabilire una relazione con le persone, uno “stare con” sottolineava il pedagogista bolognese Piero Bertolini. Coltivare e aiutare, ad esempio i giovani, a costruire legami e reti, ad assaporare il piacere di “stare” insieme e provare a fare di questa piacevole esperienza un’occasione di trasformazione di sé stessi e del proprio contesto di vita.

Ci sembra questo un passo importante – non l’unico, né l’ultimo – per innescare processi generativi in montagna, anche di carattere economico e professionalizzante, ma che, se sganciati dalle aspirazioni, dalle aspettative e dalle energie dei luoghi e di chi li vive, rischiano di restare senza un ancoraggio. L’educatore nei territori montani ha, quindi, il compito di rendere le comunità locali dei contesti capacitanti, ovvero in grado di far emergere le capabilities delle nuove generazioni, sostenendo senza dubbio l’imprenditività e le competenze ad essa connesse, ma prestando in primo luogo l’attenzione a una precondizione indispensabile: favorire le aspettative e la capacità di aspirare dei giovani. Coltivare il legame con il territorio potrebbe, inoltre, contribuire a favorire il desiderio di ritornare in chi, nel frattempo, ha maturato competenze ed esperienze altrove. Anche questa è “voglia di restare”.

Nicolò Valenzano e Federico Zamengo