Al massimo tre rifugiati ogni 1.000 abitanti. La polverizzazione della presenza straniera sul territorio nazionale è il cuore della proposta del Ministro Alfano (in discussione mentre scrivo), volta a rispondere alle proteste di una parte dei comuni italiani, che lamentano il peso eccessivo di richiedenti asilo e protezione, ospitati nei propri territori. Eppure l’Italia ha nel complesso meno stranieri rispetto ad altri Paesi Ue (l’8,3% dei residenti, contro il 9,3% della Germania e il 9,6% della Spagna); gli sbarchi, nonostante l’allarme creato dal battage mediatico, sono sostanzialmente ai livelli del 2015 (erano stati 79.618 al 15 luglio 2015 e sono 79.533 alla stessa data di quest’anno); il numero dei rifugiati, infine, seppure progressivamente aumentato in termini assoluti, rimane decisamente contenuto: in tutto sono oggi 135.785 persone, poco più di 2 ogni 1.000 residenti (basti pensare che in Austria sono 11 su 1.000 e in Svezia 15).
Dunque il nocciolo della questione è la gestione dell’accoglienza di numeri tutto sommato ancora assai modesti. Il modello fino ad oggi dominante nel nostro Paese ha visto la concentrazione dei migranti a centinaia dentro grosse strutture “emergenziali”, spesso ubicate a livello metropolitano o suburbano, in condizioni di forte disagio socio-abitativo e in assenza di reali progetti di inclusione sociale. Sul versante opposto, una più ridotta quota di persone (29.000 nel 2015) sono state accolte invece in modo diffuso (spesso in comuni piccoli e nelle aree interne extra urbane e montane), con il coinvolgimento degli enti locali, nell’ambito del sistema Sprar: qui l’approccio mira (non senza difficoltà) all’inserimento “osmotico” dei migranti nei contesti locali e, in alcuni casi, la presenza dei rifugiati sta risultando un fattore interessante per lo sviluppo di territori in crisi economica e demografica (http://goo.gl/QbC9AR). E proprio su questo secondo modello punta in effetti anche il Governo nazionale, laddove l’ipotesi di Alfano prevede incentivi per gli enti che aderiranno allo Sprar, con una deroga al blocco delle assunzioni (per impiegare personale nel settore socio-assistenziale e dell’inclusione) e con un occhio di riguardo rispetto ai vincoli di spesa, previsti per i comuni dalla Legge di stabilità. Ma l’idea di fondo di questa proposta di intervento mostra la propria miopia laddove l’immigrazione straniera (e l’arrivo dei profughi, in particolare) rimane comunque associata ad un problema (una “emergenza”), da gestire a livello centrale, attraverso una distribuzione “a pioggia” sui territori: evidentemente si ritiene che, sparpagliati e dispersi a piccoli o piccolissimi gruppi in tutti comuni italiani, gli stranieri impatterebbero in misura minima sui contesti locali, riducendo le occasioni di protesta e facilitandone il controllo da parte degli enti preposti.
Ma quali effetti socio-economici e demografici potrebbe sortire una politica di polverizzazione territoriale dei rifugiati, in particolare rispetto alle aree montane e interne del Paese? Come ben sappiamo, i comuni montani, tra Alpi e Appennini, sono in grandissima parte piccoli o piccolissimi, in maggioranza con una popolazione residente inferiore alle 5.000 persone e, in numerosi casi (specie alle quote più elevate e nelle aree interne), ben al di sotto delle 1.000 unità. Dunque, applicando alla lettera la proposta di Alfano, sulle montagne italiane in media andrebbero collocati dai 2 ai 5 rifugiati per ogni comune, e in non pochi casi, al massimo uno: con questi numeri, naturalmente sarebbe ben difficile ipotizzare un ripopolamento e un rilancio delle terre alte, basato anche o soprattutto sull’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati.
In proposito, proprio dagli Appennini, dove la presenza diffusa dei migranti è particolarmente significativa (l’accoglienza Sprar si è sviluppata innanzitutto al centro-sud, e spesso nelle aree interne e rurali/montane), si sono già levate alcune voci preoccupate. Tra i primi in allarme, Giuseppe Iennarella, sindaco di Brognaturo (Vibo Valentia), paese di 650 abitanti, a 753 m. d’altitudine, che, con i suoi 146 richiedenti asilo oggi ospitati, risulta il comune con numero massimo di accolti in Italia. Per il sindaco (intervistato lo scorso luglio dal quotidiano La Stampa, http://goo.gl/uLar0r) questi cittadini stranieri sono una delle risorse principali per rilanciare un territorio che si va spopolando da decenni e che non è oggetto di alcuna politica di sviluppo: grazie a loro, infatti, è stato riattivato un hotel da tempo in crisi, dando concrete possibilità di lavoro ad un’impresa locale e ai suoi dipendenti; l’impatto positivo dei rifugiati si sente poi sui piccoli negozi, che, a rischio di chiudere, sono tornati oggi a vendere beni di prima necessità ai migranti; e ancor di più la presenza dei rifugiati impatta a livello demografico, in un paese da cui i giovani italiani sono in gran parte fuggiti. A Brognaturo, secondo quanto previsto dall’ipotesi Alfano, di richiedenti asilo dovrebbero invece essercene in tutto due.
Un altro territorio appenninico che si va distinguendo per l’accoglienza dei migranti è il Mugello: qui, in un’area collinare e montuosa appartenente alla città metropolitana di Firenze, sono attualmente accolte 241 persone, in buona parte nell’ambito del sistema Sprar, con un impatto importante in termini di abitazioni private sfitte e riattate allo scopo, di canoniche ed edifici religiosi recuperati per l’accoglienza, nonché di immobili pubblici dismessi e rifunzionalizzati come ostelli. Grazie all’ospitalità offerta ai rifugiati, si è colta così l’opportunità di preservare e ristrutturare nel contempo un patrimonio edilizio locale a rischio abbandono o decisamente sotto-utilizzato.
A Dicomano – comune di circa 5.000 abitanti, alla confluenza tra la valle del Mugello e la Valdisieve, luogo di escursioni naturalistiche e di produzioni alimentari d’eccellenza – è nato il primo giornale dei richiedenti asilo, promosso dagli operatori della cooperativa “il Cenacolo”: si chiama “La nostra voce” ed è un bimestrale (distribuito gratuitamente in tutta la zona) che racconta le storie e i drammi dei profughi, ma anche i loro sogni, le loro speranze, la loro cultura. «L’idea di realizzarlo – spiega Davide Delle Cave, responsabile del progetto, nell’intervista pubblicata su Vita.it di luglio – è nata dall’esigenza di comunicare con l’esterno, che i profughi ci avevano manifestato già da qualche tempo: si sono accorti di essere guardati con diffidenza dalle altre persone, senza poter esprimersi e farsi conoscere davvero, a causa della propria lingua». Anche qui, se applicassimo i criteri della proposta Alfano, i migranti si ridurrebbero in tutto ad una trentina, sparsi tra colli e vallate, in situazioni di isolamento sociale a cui ben difficilmente si potrebbe rispondere con progetti di comunicazione e di aggregazione, come quello de “La nostra voce”.
Un altro caso da segnalare, sempre nell’Appennino centrale, è quello di Collegiove (Rieti), comune posto alle pendici dei monti Cervia e Navegna, da cui prende il nome la riserva naturale che occupa buona parte del territorio circostante: qui, a 1001 m. di altitudine, in un piccolo borgo ridotto a 213 abitanti (erano ancora più di 500 negli anni Sessanta), ci sono ben 30 posti Sprar, in proporzione, una delle più elevate offerte di accoglienza a livello nazionale (1 rifugiato ogni 7 residenti), con un evidente impatto proprio sul versante demografico. Sempre seguendo l’ipotesi Alfano, a Collegiove dovrebbe essere ospitato al massimo uno straniero.
Infine, mantenendo il focus sull’Appennino e spostandoci più a sud, appare particolarmente istruttivo il caso della Calabria, recentemente analizzato da Alessandra Corrado e Mariafrancesca D’Agostino nel numero di luglio di Agriregioneuropa (http://goo.gl/PHQ9sl): i comuni delle aree interne calabresi (che sono ben l’80% del totale) hanno visto, tra 1981 e 2011, la propria popolazione ridursi di oltre il 45%; la popolazione residua si caratterizza per essere sparsa sul territorio, nell’ambito di centri con meno di 5.000 abitanti (il 74% del totale) e, spesso, anche sotto i 1.000. Negli ultimi decenni, tuttavia, si sono progressivamente determinati flussi demografici inversi, legati proprio alla diffusione dell’immigrazione straniera verso l’interno e la montagna, in relazione alle opportunità lavorative nel settore primario e, in anni più recenti, all’accoglienza dei rifugiati. Come sottolinea Corrado, i piccoli comuni della Locride appaiono particolarmente interessanti da questo punto di vista. Impiegando prima risorse esclusivamente locali e successivamente quelle provenienti dall’adesione alla rete nazionale Sprar, nei comuni di Riace, Badolato, Caulonia e Stignano sono stati avviati vasti interventi di riqualificazione del patrimonio immobiliare esistente, per facilitare l’accoglienza dei rifugiati nei centri storici, ma anche per sviluppare innovativi circuiti di turismo solidale, che negli anni hanno portato migliaia di visitatori provenienti da tutto il mondo. Progressivamente, sono state inoltre aperte botteghe artigianali e altre piccole attività basate sul recupero di vecchie tradizioni e antichi mestieri, mobilitando il capitale sociale di queste realtà.
Raccogliendo la sfida lanciata dai piccoli comuni delle aree interne e montane, già sette anni fa il governo regionale calabrese varava un’apposita normativa (la L.R. n. 18 del 2009), per sostenere progetti realizzati in «comunità interessate da un crescente spopolamento o che presentino situazioni di particolare sofferenza socio-economica, che intendano intraprendere percorsi di riqualificazione e di rilancio socio-economico e culturale, collegati all’accoglienza dei richiedenti asilo, dei rifugiati, e dei titolari di misure di protezione sussidiaria o umanitaria». Dopo un periodo di stasi, la Regione Calabria sta oggi lavorando per articolare questo sistema di governance, stabilmente orientato a favorire l’inserimento di lungo periodo dei migranti all’interno dei piccoli comuni, con la precisa volontà di ri-categorizzare i rifugiati come una risorsa per lo sviluppo territoriale delle zone in crisi. Nel complesso oggi, dei 50 enti locali aderenti allo Sprar in ambito regionale (per un totale di 1966 presenze), ben 41 ricadono nelle aree interne, accogliendo 1552 beneficiari. La Regione Calabria ha inoltre recentemente presentato alla Commissione europea il Piano “Calabria. Terra di sole e di accoglienza”, proponendo il reinsediamento sul territorio regionale di 3.000-4.000 rifugiati, intorno a cui costruire un “Laboratorio di civiltà”, attraverso il potenziamento delle competenze individuali, l’ampliamento dell’offerta all’abitare non segregato (con il recupero del patrimonio immobiliare pubblico esistente), e il sostegno alla creazione di imprese sociali innovative, nel campo delle energie sostenibili, dell’agricoltura biologica, dei servizi alla persona.
Gli Appennini, dal centro-nord al sud, mostrano dunque una via di sviluppo locale interessante e innovativa, basata sulla ricerca di un equilibrio dinamico tra le risorse locali e il numero di stranieri che possono essere realisticamente ospitati sul territorio: la polverizzazione dei richiedenti asilo a livello nazionale, unitamente al loro etichettamento come “emergenza sociale”, rischierebbe di rendere vani questi sforzi.
Andrea Membretti
P.s.
Mentre chiudo questo articolo l’Appennino centrale è stato appena colpito dal fortissimo terremoto del 24 agosto scorso. Tra i molti volontari che si sono attivati da ogni parte d’Italia per portare aiuto nelle zone devastate dal sisma, mi sembra importante segnalare la presenza di alcune decine di richiedenti asilo, ospiti di strutture Sprar dei territori limitrofi.
Naturalmente sarebbe opportuno che, ad un primo momento di accoglienza basato sulle risorse messe a disposizione dalla fiscalità nazionale e/o locale, ne segua uno basato sulle attività produttive messe in atto dai migranti stessi, non considerate come diversivo ad una presenza improduttiva, ma coerente con una precisa volontà di emencipazione sociale e di ricerca di autonomia economica. Altrimenti il tutto imploderebbe.