Prima regione agricola del paese – 50 mila aziende, oltre 4 milioni di tonnellate di latte, il 40% del totale nazionale – la Lombardia registra da qualche tempo lo spirare di preoccupanti venti di guerra in Valtellina, tra le malghe dislocate sui versanti retici e orobici. Un focolaio alimentato dai cosiddetti “ribelli del Bitto” (inteso come formaggio) i cui effetti potrebbero riverberarsi su Expo 2015. Dove intanto, sulla scia di Slow Food, i “ribelli” si apprestano a sfilare sotto le insegne dei “Principi delle Orobie”: sei sopraffini formaggi di alpeggio prodotti sui due versanti delle Orobie, quello bergamasco e quello valtellinese, nelle province di Sondrio, Lecco e Bergamo.
Una rapida lettura dell’elenco (Agrì Valtorta, Bitto storico, Branzi, Formai de Mut dell’alta Valle Brembana, Stracchino e Strachitunt, per un totale di tre Dop e tre presidi Slow Food) sollecita le papille gustative dei gourmet e restituisce il sorriso a Paolo Ciapparelli, presidente del belligerante Consorzio Bitto Storico.
«Con questo progetto», s’illumina Ciapparelli aggirandosi nel forziere della casera di Gerola Alta dove preziose forme di Bitto sono messe a stagionare, marcate con i blasoni di famiglie illustri, «lo sguardo si allarga anche a un turismo in chiave agroalimentare, alla valorizzazione delle tradizioni locali, alla tutela del paesaggio e del lavoro nelle valli».
E’ un salutare raggio di sole questo che rischiara i neocostituiti “principi”, e una bella rivincita necessaria per uscire dalle nebbie della contesa sfociata nel citato movimento dei “Ribelli del Bitto”. Che a grandi linee può essere definito una lotta intestina tutta condotta sul verde campo di battaglia valtellinese in nome e per conto dei 14 alpeggiatori che nelle valli Albaredo e Gerola (dove il torrente Bitto scende verso la bassa Valtellina) continuano a produrre questo inimitabile formaggio Dop.
Il loro segreto? Praticare il pascolo turnato. Ciò significa che la mandria è condotta attraverso un percorso a tappe, mentre lungo la via i tradizionali calècc – millenarie costruzioni di pietra il cui nome sarebbe di etimologia pre-latina, derivando da kal (roccia) e cala (posto protetto) – fungono da baite di lavorazione itineranti.
Perché si sa: se si vuole che il formaggio mantenga la fragranza degli alti pascoli bisogna lavorarlo prima che il suo calore naturale si disperda e i batteri si moltiplichino. Piaccia o no, questa procedura avviene però soltanto nelle valli del Bitto. Diverso e ben più elastico è infatti il disciplinare del Bitto prodotto altrove in Valtellina, al quale i “ribelli” non intendono sottostare.
Intanto però altri problemi minacciano la pace degli alpeggi in Valtellina, sui quali ancora grava l’ombra dell’abbandono come conferma Fausto Gusmeroli, tra i maggiori esperti in campo agri-ambientale, docente a contratto di Ecologia agraria all’Università di Milano, ricercatore presso la Fondazione Fojanini di Sondrio e vice presidente dell’associazione “Amici degli alpeggi e della montagna” (AmAMont), un sodalizio interregionale e transfrontaliero.
«La contrazione del bestiame monticato» in provincia di Sondrio, spiega Gusmeroli, «riguardava sul finire degli anni Settanta 3.448 Uba bovine (-40%), 4.717 caprini (-78%) e 4.732 ovini (-94%) con una tendenza diffusa ad aggregare alpeggi confinanti in un’unica gestione. Ma oggi il sistema sembra tenere e il trend potrebbe modificarsi proprio grazie alla crisi che ha agevolato l’ingresso dei giovani in questo scenario, testimoniata da un notevole aumento d’iscrizioni agli istituiti e alle Facoltà di Agraria».
Il vero problema degli alpeggi è rappresentato dall’immissione di bovine cosmopolite di alta genealogia, al posto delle razze autoctone e tradizionali: che se da un lato garantiscono, con il determinante apporto di mangimi concentrati, una maggiore produzione, sotto un altro aspetto si rivelano inadeguate, per la loro minore attitudine al pascolo e la scarsa capacità nel conservare i cotici erbosi contrastando il ritorno di arbusti e alberi.
Ma non è solo qui il guaio. «I nuovi allevamenti instaurano una forte dipendenza alimentare dal mercato esterno», precisa Gusmeroli, «che si traduce in un sovraccarico di reflui organici, con pesanti rischi di contaminazione ambientale. D’altra parte il processo di trasformazione dei reflui in biogas tanto sbandierato come un toccasana necessita, per essere efficiente e conveniente, dell’addizione di materiali organici ricchi di amido. La soluzione più comoda è quella di impiegare il mais, pratica questa assolutamente irragionevole perché sottrae terreni alla produzione di alimenti nella nostra regione dove già si perdono 13 ettari di suolo al giorno, una superficie pari a 17 campi di calcio».
Ma è pensabile un’inversione di tendenza in una provincia come quella di Sondrio dove la produzione di latte (700-800 mila quintali l’anno, il 60% dei quali destinati alla caseificazione) rappresenta una voce fondamentale dell’economia? Dal canto suo, Gusmeroli in un brillante pamphlet provocatoriamente intitolato “Io sto con la cicala” sposa la tesi di un nuovo modello di sviluppo fondato sul senso del limite e la solidarietà quale ancora di salvezza.
Rimane aperto in vista di Expo 2015 il problema di come convogliare l’attenzione dei media sulla realtà degli alpeggi dove sempre più numerosi sono, come dimostra il sito Ruralpini, i giovani che chiedono di lavorare alla pari. In questo campo si delinea amaramente, tuttavia, l’ingiustificata latitanza delle istituzioni.
Roberto Serafin