Il molto ma mai troppo citato “Il Piccolo principe” di Saint-Exupéry presenta tra i vari incontri quello con il “geografo”, che racconta al protagonista in cosa consiste il suo mestiere: non esplorare, ma decidere cosa mettere nei libri di geografia sulla base del racconto di esploratori, valutando la loro moralità, perché la geografia si occupa di cose eterne e non dell’effimero.
Questo è ciò che subito mi viene in mente nel provare a riflettere sul rapporto tra Torino e le Alpi. Una tensione tra ciò che appare minacciato di sparire in un tempo breve e l’eterno. Certo la figura del geografo fa quasi sorridere in tempi in cui il cambiamento a tutte le scale appare paradossalmente la costante. Rischia di cambiare persino il clima della Terra. Anzi già sta cambiando. E proprio negli ecosistemi più fragili, come quelli alpini, produce da tempo in modo vistoso i suoi effetti, come la ritirata dei ghiacciai millenari, in enorme anticipo rispetto ai cicli delle grandi glaciazioni. È una geografia, quella dell’interlocutore del Piccolo principe, tutta protesa a dare sicurezza, a cogliere e mantenere l’ordine delle cose più che il cambiamento; appare anacronistica, ma in realtà svela il suo aspetto e il bisogno a cui risponde.

Il rapporto tra l’effimero e l’eterno appare nondimeno stimolante nel leggere oggi il rapporto Torino-Alpi, dove la distinzione attraversa i due insiemi territoriali. L’effimero appartiene non solo alla città, luogo simbolo del cambiamento sociale, ma altresì alla montagna, tra i relitti dei mondi dei vinti, i delicati equilibri eco sistemici e idrogeologici messi sempre più a rischio dagli opposti fenomeni di abbandono dell’alta e media montagna e l’urbanizzazione spinta dei margini e dei fondi valle; gli spazi effimeri del turismo, per usare un’espressione del geografo Claudio Minca con riferimento al turismo post-moderno, ma anche le ancora fragili sperimentazioni di modi nuovi di abitare e vivere la montagna, i lunghi tunnel dei trasporti e dei conflitti al fondo dei quali si fa fatica a vedere la luce.
L’eterno appartiene altresì, almeno nei desideri, alla città che cerca faticosamente di superare l’ennesima catastrofe, dopo la perdita del ruolo di capitale politica e militare, quella di capitale industriale, per riqualificarsi e proporsi in nuove vesti cercando altresì di mantenere una propria specificità che sta anche nel ricordarsi delle “sue” montagne.

E il rapporto effimero-eterno è ancor più facile da evocare ripensando all’eredità post-olimpica che l’evento effimero per definizione ha lasciato in modo duraturo al territorio, e soprattutto in montagna. Torino 2006 ha rappresentato per Torino una scoperta geografica, riscoprendo le montagne come fattore di sviluppo. Attraverso di esse ci si è potuti proporre per ospitare un’Olimpiade invernale che ha collocato a Torino tutto quello che non si poteva collocare in montagna. D’altra parte, guardando a Dubai, Abu Dhabi e Doha, è possibile che in futuro le Olimpiadi invernali possano tutte svolgersi in città, e d’altra parte vi era stata all’epoca della candidatura qualche ipotesi di sfruttare la collina di Torino per le gare di sci da discesa!
I giudizi sull’eredità olimpica, da intendersi come multidimensionale, materiale e immateriale, sono variegati nel considerare il gioco di luci e ombre, ma nel complesso mi sento di affermare, sulla base di numerose ricerche sull’eredità olimpica svolte dal gruppo Omero, che se per Torino nella sua dimensione più urbana che metropolitana prevalgono le valutazioni positive, per le valli tendono a prevalere quelle negative, legate soprattutto ai “white elephants”, come la letteratura olimpica li definisce, dei trampolini e della pista di bob, opere faraoniche e rese ancora più insensate dalla mancata e tempestiva gestione nel post-olimpico, vere e proprie servitù imposte alla montagna (e a tutti i contribuenti) per celebrare l’evento effimero.
Se c’è stata l’innovazione geografica della governance che si è resa necessaria per gestire l’evento olimpico, con inedite sinergie e collaborazioni tra attori della città e della montagna, questa è stata relativamente effimera, non generando reti di collaborazioni durature e stabili nel segno di un’alleanza come il progetto Torino Città delle Alpi auspicava e promuoveva. Anche solo sul fronte turistico sono decisamente sotto considerate e sfruttare le potenzialità di sinergia tra il sistema turistico torinese e quello delle alte valli.
Certamente però alcune eredità importanti sono rimaste, quali un notevole aumento dell’accessibilità su gomma tra Torino e le valli, in particolare le Valli Chisone e Germanasca, con un accentuamento dei fenomeni di diffusione urbana sia sul piano morfologico che degli stili di vita, segnalati da Antonio De Rossi nel suo contributo in questo numero della rivista, e che richiederebbero maggiore attenzione sia sul piano della ricerca che delle politiche.
Le montagne continuano a essere l’eterno scenario in cui da Torino si proiettano gli sguardi meravigliati dei nuovi turisti, degli investitori, dei nuovi abitanti urbani, costante riferimento nelle geografie che guidano i movimenti quotidiani (a ovest la montagna, a est la collina); dalle montagne lo smog della Torino fordista si è un po’ diradato e consente di scorgere i nuovi assetti, skyline e sfide in altezza dei nuovi re della finanza internazionale. Di eterno c’è forse che Torino ha ancor bisogno delle “sue” valli, e che le valli hanno nuovi bisogni della “loro” Torino in inedite relazioni che colmino le asimmetrie geopolitiche tra questi due spazi.
Egidio Dansero