A ventitré anni Devis Bonanni visita alcune esperienze di ecovillaggi in Italia e all’estero e decide di abbandonare l’impiego come tecnico informatico per intraprendere un cammino più in sintonia con la Natura. Da anni pratica l’agricoltura di prossimità e segue i principi della decrescita e della sobrietà come stile di vita e di relazione con gli altri e con il territorio. E’ autore di alcune pubblicazioni in cui racconta la sua storia e i suoi progetti, tra cui i volumi “Pecora nera” e “Il buon selvaggio”. Il suo blog è: http://www.progettopecoranera.it/

Com’è la tua vita in questi giorni?
Sto bene, lavoro: avendo la partita Iva posso andare nei miei campi, che comunque sono a poche centinaia di metri da casa. L’unica cosa che non posso fare è offrire come ogni anno l’ospitalità ad alcuni ragazzi woofers, che sarebbero dovuti venire in marzo a darmi una mano con le semine. La nostra regione, il Friuli Venezia-Giulia, ha seguito la Lombardia e il Veneto come chiusure e blocchi alla mobilità: peró qui in montagna la situazione è chiaramente diversa. E’giunta notizia di qualche anziana malata per essere uscita a raccogliere tarassaco nei prati ma non si sa se siano voci veritiere o notizie messe in circolazione per fare paura; controlli in paese ci sono stati, ma tutto sommato molto limitati.
Che impatto sta avendo il Covid-19 sull’economia della Carnia,?
Ti posso parlare della mia esperienza. Io in questo periodo produco solo uova, perché l’orto ancora non è pronto, ma riesco a piazzarle tutte. In generale il mio obiettivo è di produrre per i miei compaesani, per chi vive vicino a me. Grazie alle relazioni che ho costruito nel tempo, riesco comunque a vendere la mia merce mentre chi per esempio fa i mercati in giro, a fondovalle o a Udine, come quello dei contadini, ora è bloccato, non riesce a distribuire nulla.
Le reti di prossimità e il km zero oggi sono dunque una risorsa?
Sì, certamente. Io nel mio piccolo seguo la filosofia delle reti di economia solidale, quella che in altre comunità è già applicata su scala più ampia. Un approccio diverso da quello di chi mira anzitutto a rifornire la città e i cittadini. Io mi sono sempre domandato come convincere i miei compaesani a comprare i miei prodotti, quale fosse il prezzo giusto, come mettermi in contatto con loro e costruire un rapporto di fiducia reciproca. Questa secondo me è la prima cosa da fare. Il paesano da noi spesso l’orto non ce l’ha più e ha anche perso l’idea del valore di ciò che viene prodotto in modo naturale, diversamente dal cittadino, che spesso è disposto a pagare cifre significative per avere il prodotto biologico e non industriale. Il paesano, il montanaro, va riavvicinato al valore di questo tipo di prodotti, e si può provare a farlo partendo dalle relazioni personali. Io ad esempio l’anno scorso ho iniziato a produrre le uova e, per far conoscere il mio prodotto, le ho lasciate davanti alle porte di tanti in paese in omaggio, con un biglietto, in cui spiegavo come allevo le galline, quanto costano le uova e come possono ordinarle a domicilio, anche tramite whatsapp. La risposta pian piano c’è stata e ora, in questo periodo di isolamento, faccio le consegne a casa di tante persone e presto ripartirò con verdura e frutta.

In Carnia si stanno sviluppando iniziative come la tua o ti senti una “pecora nera”?
Giovani contadini qui ce ne sono, anche nei paesi limitrofi. Chi pratica agricoltura, chi è interessato agli usi civici, chi alleva animali: un certo fenomeno di ritorno c’è ma quello che manca è la massa critica. Siamo dispersi, due o tre per comune. Non si riesce ad avviare progetti complessi, corali. E poi le valli sono distanti tra loro, i collegamenti difficili. In montagna oggi si produce pochissimo: se chiudono i supermercati qui le persone restano senza mangiare come a Milano. Intorno a casa sino a pochi anni fa tutti avevano il bearc, cioè un terreno con gli ortaggi, alcune piante da frutto e un po’ di conigli e pollame. Oggi sono stati trasformati in giardini, con piante ornamentali e prato all’inglese, tosato tutte le settimane, così neppure le api possono trovare qualche fiore. Si è persa l’idea di avere una piccola unità produttiva associata ad ogni abitazione: oggi chi ha un melo nel giardino capita che mi chiami per tagliarlo, perché poi le mele cadono e sporcano il prato.
L’impatto del virus potrà spingere qualcuno verso la vita e il lavoro in montagna?
Ci sarà un ulteriore motivo di riflessione, una spinta per quanti stavano già pensando a questa opzione. Il virus rappresenta uno shock molto maggiore di quanto la crisi ambientale o climatica stava producendo nelle persone. Quello che Greta Thumberg poteva pensare di sollecitare in venti o trent’anni, il Covid 19 lo ha prodotto in poche settimane, in termini di ripensamento, di cambiamento radicale, anche se temporaneo. Siamo oggi in un mondo che ha messo gli aerei a terra: questo ha reso concreta una possibilità, che prima era solo un’ipotesi. Anche se domani torneremo ad una forma di “normalità” nessuno potrà più dire che certe misure non siano praticabili. Questo apre scenari nuovi, soprattutto nelle persone che avevano già questo tipo di sensibilità. Per tutti gli altri, quanto è successo sinora, purtroppo, è ancora troppo poco per spingere ad un cambiamento reale. Il lessico diffuso è quello della battaglia contro un problema da sconfiggere con le nostre armi moderne: il vaccino, la medicina, la tecnologia. Non si considera di cambiare il modello economico e sociale che ha favorito l’insorgere e il diffondersi di virus come quello attuale: penso ad esempio agli allevamenti intensivi di animali da carne e a come sono potenziali focolai per la nascita e la trasmissione all’uomo di queste patologie.

Ti sento pessimista?
Non credo che ci sarà un cambiamento sociale di massa. C’è già la convinzione diffusa, anche dai media, che dovremo presto tornare a livelli di produzione e di consumo di prima, recuperando al più presto i punti di Pil che stiamo perdendo. Piergiorgio Odifreddi dice che siamo una società talmente opulenta e in continua “crescita” che non possiamo neppure fermarci a riflettere.
Non abbiamo la capacità di accettare il limite. Viviamo la situazione come un lungo inverno in montagna, in cui la neve ci obbliga a stare in casa, facendo parsimonia e magari progettando un futuro diverso, che potremo costruire a primavera.
E’ una situazione che ci troveremo ad affrontare per lungo tempo e dovremmo considerarla come fa il contadino, che accetta i limiti posti dall’alternanza delle stagioni, dalla natura dei terreni, dalle calamità naturali. Che si adatta. Senza senso di onnipotenza, come quella che fino ad oggi abbiamo avuto anche dal punto di vista medico e scientifico.
Tu che da anni pratichi la decrescita in montagna ti senti più preparato ad affrontare la situazione rispetto a un cittadino?
L’idea di controllare quello che mi circonda l’ho abbandonata anni fa, quando per la prima volta una grandinata mi ha distrutto l’orto. La situazione attuale psicologicamente non mi ha dunque così traumatizzato: chi lavora la terra e dipende da essa per la propria sopravvivenza, è abituato a farsi concavo o convesso a seconda delle circostanze. Praticare un esercizio di rinuncia aiuta, come faccio volontariamente da tanto tempo.
Andrea Membretti