Il ritornello è sempre lo stesso. La canzone ama contrapporre il mondo della montagna a quello della città, attribuendo alla montagna caratteri di “naturalità” e arcaicità (un po’ parco e un po’ museo) e alla metropoli espressioni di modernità e innovazione. Naturalmente si tratta di un luogo comune, che affonda ancora le sue radici nella matrice romantica della montagna, o meglio della scoperta urbana delle Alpi risalente alla seconda metà del Settecento. Ma oggi il panorama è completamente è cambiato, e per riflettere sulle relazioni tra montagna e città, dunque tra sguardi interni e sguardi esterni alle Alpi, o tra “locale” e “globale”, occorre affrontare un salto di prospettiva culturale. Non valgono più i vecchi concetti di cultura “alpina” e cultura “urbana”. Bisogna spostare il punto di vista.
Il geografo Eugenio Turri ha scritto:
«Difendere la valle, la sua identità oggi si può non tanto chiudendosi in una Heimat senza speranza, ma coltivando le passioni locali e nel contempo dialogando con l’esterno, quindi con la megalopoli. Come dire che ci vuole una duplice cultura, unica condizione per vivere o sopravvivere nel difficile mondo della complessità che ci assedia».
Ecco il punto fondamentale: una cultura sola non basta più. Chi si illude di salvare e rilanciare la montagna con una pur nobile difesa della sua memoria, della sua autonomia, delle sue tradizioni, ignora che il nostro mondo – almeno il mondo europeo – vive ormai di un’unica cultura, quella metropolitana, e che ogni alternativa può nascere solo all’interno di essa e non a chimerica difesa di un passato autarchico che non esiste più (o non è mai esistito affatto). In altre parole l’identità alpina non può porsi come un “locale” impermeabile al “globale”, ma può rivendicare forza e dignità solo se accetta di misurarsi con il “mondo di fuori”, recependone le sollecitazioni utili e facendone emergere i limiti e le contraddizioni.
In tal senso va analizzata la complessa e difficile relazione tra cultura interna e cultura esterna, che viene spesso declinata come uno scontro-incontro fra tradizione e turismo, ma in realtà non è altro che l’incontro-scontro tra interno alpino ed esterno metropolitano. Le due culture, appunto.
Anche in riferimento alla “tradizione” occorre spostare i termini della questione, perché “tradizione” non è un concetto statico, la tradizione non si può congelare, ma appartiene a una realtà culturale in continuo divenire attraverso scambi, condizionamenti e contributi esterni. Dunque, riferendoci alla realtà alpina contemporanea, si può notare come il turismo faccia già parte della cultura alpina ottocentesca, e nel Novecento sia diventato “tradizione” esso stesso, cioè cultura locale motivata e condizionata da spinte esterne.
Con grande lungimiranza l’abbé Gorret scriveva nell’Ottocento:
«Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato».
Gorret ragionava ancora nei termini dei “due mondi” contrapposti – città e montagna –, ma aveva capito perfettamente che, non fosse altro che per ragioni economiche, non si può proporre al turista una “copia” (bella o brutta che sia) del suo stesso mondo, cioè della città.
Ma anche la visione opposta, di un mondo “vergine” e “incontaminato”, porta in sé un’insanabile contraddizione, come avrebbero osservato molti anni dopo gli studiosi dei flussi turistici diretti verso i paradisi esotici del pianeta. Perché il turismo “mangia” se stesso, nel senso che consuma e distrugge ciò che cerca:
«La vacanza turistica è un’attività che si alimenta del mito della verginità da svelare e dell’incontaminato da contaminare. Più il turismo sale, più il valore edenico di un luogo scende» scrive l’antropologo Duccio Canestrini.
Nessun luogo può rappresentare meglio delle Alpi questo paradosso, perché nessun luogo si è nutrito più a lungo e in profondità di orizzonti puri, ideali assoluti, altezze liberatorie, natura rigeneratrice, tutti valori incompatibili con il turismo di massa fondato sul modello consumistico.
Il turismo non è un fenomeno diverso dalle altre attività commerciali, e come tale si basa sul consumo: di beni immateriali come la bellezza (dell’ambiente), la spettacolarità (delle montagne), il silenzio, la “genuinità”, la “tradizione”; di attrattive folcloriche che, adeguatamente pilotate, rispondano alle pretese dei cittadini romantici e orfani del passato. In tal modo ogni località, ogni valle, ogni comprensorio alpino si è visto costretto a ridefinire se stesso e a “reinventarsi” a uso e consumo della città, con processi di rappresentazione che spesso non coincidono con l’anima del luogo, ma sono semplicemente il frutto dell’adattamento a modelli governati dalle regole del mercato turistico. Una falsificazione, insomma.
Ma allora, se non si può proporre la “città in montagna”, almeno nelle sue forme di pianura, e neppure la falsificazione della montagna romantica, del bel tempo che fu, della wilderness lontana dal mondo reale, su quali contenuti possono basarsi un abitare e frequentare le Alpi responsabili e capaci di futuro?
Non esiste strada diversa da quella del dialogo tra le due culture, perché la città stessa si convinca dei valori che ha perduto cercando, in montagna, di individuare nuove soluzioni, imparare altre visioni, differenti rapporti con il territorio, diversi e più lungimiranti modelli di sviluppo. Inventare un’altra città.
In questa prospettiva vanno riconsiderati i rapporti tra montagna e pianura, dunque tra “montanari” (vecchi e nuovi) e “cittadini” di ogni specie. Non nei termini di un incontro tra passato e presente, o fra tradizione e innovazione, ma in quelli di un mondo fragile e speciale che incontra un mondo (apparentemente) più solido e sicuro di sé, ma che di fatto – proprio in funzione delle sue fragilità – può indicare alla pianura il senso del limite, il valore del tempo, un diverso modo di intendere lo “sviluppo”, meno schiavo del consumo e più interessato alla qualità della vita. In ogni caso siamo tutti sulla stessa barca.
In conclusione, che cosa rappresentano le terre alte nel momento di maggior crisi della modernità? Ha ancora senso parlare di città e montagna come di due mondi contrapposti? Evidentemente no, perché la cultura della montagna contemporanea, e di quella alpina in particolare, è il risultato di molte ibridazioni dovute alla decadenza delle identità tradizionali, al rimescolamento tra vecchi e nuovi montanari, ai rapporti tra città e montagna nel quadro ormai di un’unica metropoli. La stessa “cultura alpina” è un concetto del tutto astratto e in continua evoluzione. Anacronisticamente, il senso e il ruolo della montagna vengono continuamente declinati al passato, senza considerare le nuove opportunità economiche e culturali che la montagna può offrire alla città, non come galleria del tempo andato ma come laboratorio di futuro.
Si prospetta dunque un passaggio culturale fondamentale, che riguarda in particolare le peculiarità e i saperi ambientali tipici delle terre alte: dalla ricchezza delle risorse energetiche rinnovabili all’urgenza di inventare nuove forme di comunità, dall’esigenza di progettare un’architettura durevole e in sintonia con il territorio alla possibilità di sperimentare nuovi stili di economia e di vita. La montagna, in due parole, può candidarsi a diventare il luogo della “città sostenibile”.
Enrico Camanni

Scarica il programma in pdf