Chiederselo è d’obbligo. Nella sua “Laudato si’” Francesco pone significativamente questo tema come incipit del primo capitolo. Un interrogarsi difficile, doloroso, inquietante. Motivo per il quale in molti – a cominciare da chi ha continuato a negare la crisi climatica quasi si trattasse di un’emergenza contingente – oggi tendono a distogliere lo sguardo, un moderno nichilismo che si traduce in infastidita indifferenza, a difesa della propria “non negoziabile” comfort zone. Ancora persuasi che ci si possa salvare da soli.
Di certo la domanda non è agevole. In primo luogo perché quel che sta accadendo alla nostra casa ha a che fare con una complessità che non sappiamo leggere. Perché quel che accade è frequentemente nel territorio dell’inedito. E infine perché cambiare il nostro modo di pensare e le modalità del nostro stare al mondo non è facile.
Lo potremmo dire così. La modernità è figlia del positivismo. Di quello sguardo filosofico che aveva come presupposto materiale la società dell’abbondanza. Tanto che nelle sue principali declinazioni, il pensiero liberale come quello di origine marxista, pur nella loro opposizione, erano accomunati nelle magnifiche sorti progressive, distinguendosi sugli assetti proprietari e sulla distribuzione della ricchezza.
All’inizio del XIX secolo abitavano il pianeta meno di un miliardo di esseri umani e veniva consumata una quantità irrilevante di risorse rispetto a quanto gli ecosistemi riuscivano a mettere a disposizione di tutti i viventi. Con l’irrompere di Antropocene le cose andranno diversamente. Ma ancora nel 1960, in pieno boom economico, con una popolazione globale inferiore ai tre miliardi di esseri umani, il pianeta consumava la metà delle risorse disponibili. Il tema cruciale continuava a essere quello della diseguaglianza.
Oggi le disuguaglianze permangono, l’iniquità divide il mondo fra inclusione ed esclusione, ma il contesto è profondamente cambiato. La popolazione globale ha superato la soglia degli 8 miliardi e il pianeta consuma ogni anno quasi il doppio di quanto gli ecosistemi sono in grado di produrre. E poi c’è un fattore nuovo, che rende tutto maledettamente più complicato: quello che Francesco indica con il termine “rapidacion”, riferito in particolare alla rapidità con cui la crisi climatica si manifesta e s’intreccia con le altre crisi sistemiche.
Il tradizionale rapporto fra tempi storici (quel che accade nello spazio temporale della storia dell’uomo) e tempi biologici (quello degli ecosistemi) si è rovesciato e noi, nelle nostre piccole vite, assistiamo a fenomeni che prima avvenivano in ere geologiche. La fusione di un ghiacciaio, per fare un esempio, è il concludersi di un ecosistema che esiste almeno da 14 mila anni, ovvero dall’ultima glaciazione. Assistiamo alla fine di ecosistemi come i ghiacciai della Marmolada o dell’Adamello che ci hanno permesso di vivere garantendoci la risorsa idrica per l’agricoltura, l’allevamento di animali, la produzione idroelettrica e così via… Eppure facciamo fatica a comprendere le conseguenze che l’esaurimento di questi straordinari ecosistemi comporterà per le comunità che ne hanno sin qui beneficiato, nell’arco alpino come nelle pianure e nelle città che dipendono dai sistemi d’acqua dolce originati proprio da quelle riserve d’acqua che sono i ghiacciai.
Si dice che i cambiamenti climatici ci sono sempre stati ed effettivamente è così. Ma oggi abbiamo a che fare con due elementi di novità: i cambiamenti sono determinati dagli effetti climalteranti dell’agire umano (un modello di sviluppo insostenibile) e la rapidità con cui avviene il rovesciamento fra tempi storici e tempi biologici, che contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica. In questo modo il pianeta precipita nell’inedito.
Alla fatica di cambiare si aggiunge pertanto l’inadeguatezza del nostro sapere, incapaci di comprendere «le molteplici relazioni che esistono fra le cose» (la complessità), prigionieri come siamo della «fiducia irrazionale nel progresso e nelle capacità umane» e di un rapporto di dominio verso la natura di cui siamo peraltro un’infinitesima parte (la perdita del senso del limite).
Descriverlo è urgente. Per questo con Maurizio Dematteis abbiamo deciso di scrivere “Inverno liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa” (DeriveApprodi, 2023), un lavoro che intendiamo come l’inizio di un cammino collettivo, il numero zero di una collana editoriale proprio attorno all’impatto delle crisi (al plurale, come ci ha insegnato il Covid – 19, portandoci a parlare di “sindemia”) sugli ecosistemi terrestri, le forme attraverso le quali dovremo imparare a leggere il nostro pianeta. Una “nuova geografia”, oltre i confini e gli anacronismi stato-nazionali che hanno segnato tragicamente la modernità. Un contributo di idee per quel cambio di paradigma di cui avvertiamo l’urgenza.
Michele Nardelli, formatore e saggista, è stato presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani, ideatore di Osservatorio Balcani Caucaso, consigliere della Regione Autonoma Trentino Alto Adige – Südtirol e della Provincia autonoma di Trento. È autore con Mauro Cereghini di “Darsi il tempo” (EMI, 2008) e di “Sicurezza” (Messaggero, 2018), con Diego Cason de “Il monito della ninfea” (Bertelli, 2020 e 2022), con AA.VV. di “Dal libro dell’esodo” (Piemme, 2016), con Maurizio Dematteis di “Inverno liquido” (Derive&Approdi, 2023).