Centocinquanta anni fa la realtà superò la fantasia. Il 14 luglio 1865 il valdostano Jean-Antoine Carrel e il londinese Edward Whymper si disputarono la cima del Cervino all’ultimo round e Whymper vinse per un soffio, pagando il successo con la morte di quattro compagni sulla via del ritorno. I cantori e i detrattori dell’alpinismo si intrattennero a lungo sulla conquista della Gran Becca, perché la strana gara sembrava uscita dalla penna di uno scrittore. Un po’ romanzo d’avventura, un po’ film dell’orrore.
La trama nascondeva una storia di potere, un affare di stato. Infatti per il giovane stato italiano la Becca della Valtournenche rappresentava il riscatto sulla supremazia britannica sulle Alpi. Una rivincita della politica, dell’alpinismo e della scienza, anche se di misurazioni barometriche non si parlava neanche più, ormai, perché la posta in gioco era troppo alta e bisognava correre per arrivare primi.

Quintino Sella tramava da mesi per la conquista. Nell’estate del 1864 Sella incaricò l’amico e deputato novarese Giuseppe Torelli di stanare Jean-Antoine Carrel:
«Partii da Torino verso il finire del luglio. Pernottai a Châtillon e il mattino seguente mi addentrai nella valle che conduce a Tournanche e a Breuil. Colà giunto, dopo circa sette ore di viaggio, cercai tosto del Carrel. E lo trovai e lo ammirai; e dopo mezz’ora di dialogo, lo indussi a cedere alle mie istanze e a recarsi al convegno dal Sella desiderato».
Sella e Carrel s’incontrano a Biella e si mettono d’accordo. Successivamente entra in scena anche Felice Giordano, ispettore delle miniere del Regno. Passa un altro inverno e arriva la fatidica estate del 1865. Dopo una primavera mite, il Cervino si presenta scalabile già all’inizio di luglio. Whymper piomba a Valtournenche in cerca di Carrel, ma la guida afferma di essere impegnata con “una distintissima famiglia”. Nella notte dell’11 luglio Carrel parte di nascosto con la benedizione di Giordano, salito al Breuil ad architettare l’ascensione. Dopo tre giorni di febbrile attesa, il 14 luglio Giordano scrive a Sella:
«Caro Quintino, oggi alle 2 pomeridiane con un buon cannocchiale vidi Carrel e soci sull’estrema vetta del Cervino; il successo pare certo».
Ma è un’illusione. Il giorno dopo Giordano prende altra carta e si corregge: «Caro Quintino, ieri fu una cattiva giornata, e Whymper finì per spuntarla contro l’infelice Carrel».
Gli uomini avvistati sulla cima non erano i valdostani ma la cordata internazionale di Whymper, ripiegato su Zermatt dopo aver capito, a sue spese, che la “famiglia distintissima” era ben più temibile di un cliente ordinario. Era l’Italia stessa.
Così Whymper aveva intrapreso la scalata del Cervino dalla cresta svizzera dell’Hörnli, che si era rivelata ben più docile delle apparenze, quasi facile. Ma un tarlo gli rodeva dentro, l’idea che gli italiani potessero precederlo dall’altro versante:
«Eravamo tormentati dall’ansietà. Più salivamo più cresceva l’agitazione. Come ci saremmo sentiti se fossimo stati battuti all’ultimo istante? Alla fine ci slegammo e ingaggiammo un testa a testa che terminò alla pari. Alle 13,40 il mondo era ai nostri piedi, il Cervino era conquistato. Urrah! Non si vedeva nessuna impronta… Ma dov’erano quegli uomini? Scrutai la parete fra il dubbio e la speranza, e immediatamente li vidi, in basso a grande distanza. Allora sollevai le braccia agitando il cappello.»
Anche Carrel lo vede, vincitore in braghe coloniali bianche, proprio in cima alla sua Becca. Il valdostano ripiega con la morte nel cuore, ma rianimato dall’ottimismo dell’abbé Gorret, il prete di Valtournenche che scalava come un camoscio e ragionava come un professore, riparte il 16 luglio raggiungendo finalmente la vetta il 17. Alla fine, paradossalmente, sono gli italiani a far festa al Breuil con i fuochi accesi, perché Zermatt, sul lato opposto della montagna, piange i primi morti del Cervino.
La gara si ripete quindici anni dopo, quando l’alpinista inglese Albert Frederick Mummery e la guida vallesana Alexander Burgener salgono verso il Dente del Gigante, sulla cresta del Monte Bianco. Giunto alla Gengiva, il montanaro di Saas aggira lo spigolo e affronta la liscia placca di granito; i chiodi degli scarponi scintillano e le dita cercano l’appiglio che non c’è; ritorna imprecando sui suoi passi. Alla base della placca che li ha respinti, Mummery lascia il bastone di legno e un foglietto con un messaggio: «Inaccessible by fair means, insuperabile con mezzi onesti».
Il messaggio non sarà raccolto, ma il bastone sì: dal manipolo di alpinisti italiani che addomesticano il monolite con corde, scale, martelli e punte di ferro. «Le guide – racconta Alessandro Sella, figlio di Quintino – non avevano potuto sormontare il cattivo passo che colla scala a piuoli. Esse avevano attaccato in alto una corda doppia munita di qualche raro nodo. Vi si saliva a forza di braccia… Giunsi sulla cima all’una pomeridiana, salutato dall’energico grido di Viva l’Italia!»
Il 29 luglio 1882 è un giorno luminoso per gli uomini del Club Alpino, che giudicano la scalata artificiale del Dente un atto supremo di bravura e coraggio. L’eco della vittoria assume rilevanza nazionale, perché la guglia inaccessibile è stata domata in nome della patria da due illustri famiglie dell’alpinismo: i Maquignaz di Valtournenche e i Sella di Biella. La salita del Dente del Gigante è una conquista di nessuna utilità economica ma di elevato valore simbolico. Il riscatto a lungo desiderato.
Enrico Camanni