Luca Gibello, Cantieri d’alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi nelle Alpi, Lineadaria Editore, Biella 2011, pagg. 192, 20 euro
Nel 1926 Sacken Brayda, nel suo “Stili di Architettura”, distingueva le costruzioni umane sulla base di unità nello scopo (pratico) e impronta di un pensiero più elevato (ideale). Le opere d’arte, quindi le architetture, rappresentavano il connubbio formale tra questi due parametri, mentre il resto era catalogabile, al limite, come manufatto di sussistenza o come rozza pietra per l’adorazione, come nel caso dei dolmens e dei menhir. Il motivo per cui, negli anni, nessun testo di cultura architettonica è stato dedicato, in modo sistematico e non per monografia di architetti noti, alla storia dei rifugi di montagna è dovuto all’incirca allo stesso parametro discriminatore che utilizzava Sacken Brayda per denotare l’assenza di capacità artistiche nelle culture litiche antiche. Soprattutto, idealmente, a causa del prevalere degli aspetti funzionali su quelli formali; per dirla in altro modo, per la provenienza formale del rifugio dalla capanna e dall’idea archetipa del manufatto come presidio temporaneo, piuttosto che come espressione delle pratiche (più complesse) dell’abitare. Nella realtà dei fatti, come efficacemente illustrato nel volume di Luca Gibello, anche se il rifugio deriva effettivamente dalla capanna e, in definitiva, dalla matrice più essenziale dell’architettura, nel tempo il modello si è trasformato e differenziato notevolmente, passando dal modello delle capanne e padiglioni della fase “eroica” di fine Ottocento alle avveniristiche costruzioni contemporanee. Ma la cosa più interessante di questa trasformazione è forse rappresentata, in definitiva, dal fatto che non è solo la struttura fisica del modello del rifugio ad essersi trasformata nel corso del tempo. È l’ambiente umano e lo ‘stile’ stesso di frequentazione e utilizzazione della montagna che è cambiato di pari passo con la struttura e la logica dei manufatti, in relazione a una transizione da una fase di “difesa”, quella originale per così dire prometeica dell’uomo che tentava di difendersi dalle insidie della natura (la storia della capanna del Disgrazia rappresenta molto bene, tra le tante, questa idea di ‘sfida’, mai persa una volta per tutte, dell’uomo nei confronti dell’ambiente naturale) a quella della necessaria integrazione con ambienti sensibili. Oggi, come ben messo in evidenza all’interno del testo, il rifugio non risponde più solamente alle esigenze dei padri fondatori dell’alpinismo. La funzione di difesa, di per sé ancora necessaria, passa quasi in secondo piano in relazione alla presenza di altri fattori, al primo posto quella del manufatto alpino come modello sperimentale di innovazione: il rifugio come macchina, così come definito efficacemente all’interno del testo nel capitolo conclusivo di Roberto Dini in relazione alle pratiche di autonomia energetica e sostenibilità ambientale oggi all’apice dei principi progettuali, ma anche degli studi condotti sull’involucro, verso il superamento dell’immagine stessa del rifugio come ‘edificio’ con operazioni mimetiche. All’interno del libro una panoramica esauriente costruisce questo percorso transeunte a partire dalle origini dei rifugi alpini fino ai giorni nostri, con riferimenti (anche iconografici) piuttosto ricchi e completi per tutti i periodi analizzati. Nelle varie transizioni la parte probabilmente di maggior interesse è quella riferita alla fase contemporanea, questa veramente inesplorata anche nella letteratura tematica, non tanto in relazione alla semplice descrizione dei vari siti architettonici, quanto nell’esplorazione dei diversi approcci progettuali, le tendenze e le diversità culturali (considerando ad esempio il fatto che in Austria è il Ministero dei Trasporti a promuovere direttamente la costruzione della Haus der Zukunft, la casa del futuro). Da qui il tema solo apparentemente puntuale e circoscritto, diventa in realtà un tema per riflettere sugli aspetti che compongono e caratterizzano le Alpi della contemporaneità. Uno spunto per altri testi che sicuramente, speriamo, seguiranno.
Alberto Di Gioia
Buonasera,
mi permetto di segnalare che il curatore dell’articolo il sig. Alberto Di Gioia, ha commesso un errore, in quanto “Sacken Brayda” non è un autore esistente.
Il volume “Stili di architettura” edito da Loecher a fine Ottocento, è stato scritto da Eduard von Sacken, poi tradotto in italiano e rivisto con aggiunte dall’ing. Riccardo Brayda, a cui si deve il successo del Catechismo in Italia.
Resto a disposizione per ulteriori informazioni in merito.
Luca De Chiara