Dall’approdo ad Ivrea nel 2011 come rifugiati politici, all’avvio di una partita Iva con un progetto di orto biologico su un terreno incolto sulla collina di Burolo. Questa la storia di Mashud e Samshadin, che racconta di come, se adeguatamente sostenuti, i montanari “per forza” possano trovare una loro strada per un nuovo progetto di vita, recuperando spazi abbandonati.
Mashud, originario del Bangladesh, oggi nel nostro paese con un permesso di soggiorno di tipo umanitario, ha poco meno di trent’anni e ha condiviso gran parte del suo percorso con il connazionale Samshadin. Insieme alla Presidente della Cooperativa Sociale Maryppoppins di Ivrea, Giulia Bonavolontà e alla volontaria Luciana, mi racconta la loro storia e quella dell’orto dell’integrazione.
Quando Mashud è arrivato in Italia, sei anni fa, era appena stato cacciato dal territorio libico, imbarcato a forza su un “barcone della speranza” senza soldi né documenti, e sbarcato sulle nostre coste, per essere indirizzato, assieme a molti altri migranti forzati, a vivere in una situazione di degrado all’Hotel Ritz di Banchette per due anni. In quel contesto ha incontrato i volontari che tenevano corsi di lingua italiana, i quali, assieme a Luciana, si sono attivati da subito per aiutarlo a perseguire il suo sogno di ritornare a lavorare la terra, come aveva sempre fatto da quando aveva 14 anni, al suo paese. Così, da lì a poco, anche grazie al passaparola, è arrivata l’occasione che cercavano: 7000 mq di terre con un’ottima esposizione nella frazione la Maddalena di Burolo, paese sulla Serra di Ivrea. Con l’ottenimento di questi terreni in comodato d’uso e l’apertura di una partita Iva, Mashud e Samshadin sono riusciti ad avviare la loro attività e in breve tempo con il solo aiuto delle loro mani (e pochissimi attrezzi), hanno dissodato tutto il terreno incolto.
Il bengalese racconta che la fatica per lui non è mai stato un problema. E che la sua attività è sempre stata spinta da una vera passione per il lavoro agricolo. «In estate ogni giorno riesco a irrigare più di 700 piante tra spinacio rosso, melanzane e altre – spiega Mashud -. In inverno il lavoro non diminuisce di molto, perché le colture vengono adattate alla stagione e i campi devono essere mantenuti puliti, tutti i giorni». Oggi Mashud per il suo lavoro quotidiano può contare addirittura sull’aiuto di un piccolo trattore, frutto di una campagna di finanziamento collettivo.

Dai racconti emerge più volte la figura della persona che ha dato loro i terreni, e che li ha aiutati a trovare una piccola casa poco distante dai terreni coltivati. Sempre il proprietario dei terreni li ha persino guidati nell’apprendimento del metodo di coltura biologica Manenti, che prevede un quasi totale rispetto dei microorganismi presenti nella terra, evitando la tradizionale aratura delle zolle e facendo il solo uso di verderame come prevenzione per i parassiti.
Viste le capacità di Mashud, oltre ai tanti prodotti locali, è nata l’idea di coltivare ortaggi le cui sementi arrivano direttamente dal Bangladesh. Tra questi la Korola, l’Okra, il Pui Shag (spinacio verde), l’Al Shag (spinacio rosso o amaranto), il peperoncino e il Lau (una specie di zucca). Tutti prodotti di qualità, biologici, che pur se venduti al “giusto prezzo”, trovano un interesse crescente da parte delle persone stanche dei prodotti ortofrutticoli della grande distribuzione di cui molto spesso si ignorano provenienza e processi di coltivazione.
La produzione dei terreni recuperati viene venduta al mercato biologico ed equosolidale del centro Zac di Ivrea, ma cresce il numero dei clienti affezionati che ormai contattano direttamente il produttore. Moshud ora si arrangia nel raggiungere il mercato, che dista 14 chilometri di saliscendi, con la sua bicicletta, sulla quale riesce a caricare fino a 80 kg di ortaggi alla volta. Ma non appena riuscirà a prendere la patente (per la quale sta studiando nei pochi momenti di tempo libero), potrà portare l’Ape Piaggio ricevuta tramite una donazione, migliorando così la sua mobilità e le sue quantità di vendita.
«Per noi che da decenni ci occupiamo d’immigrazione – spiega Giulia Bonavolontà -, questa è stata la prima esperienza nel campo dell’agricoltura, con risultati così soddisfacenti che stiamo continuando ad impegnarci per farla diventare una realtà autonoma e un modello di vera integrazione». Nel giro di poco tempo il successo e l’innovatività dell’attività produttiva ha stimolato altri proprietari di terreni abbandonati della zona a contattare la Cooperativa, per proporre nuovi contratti di comodato o per fare delle donazioni. Tanto che Maryppoppins sta meditando sull’idea di ampliare l’attività di Moshud con la creazione di una azienda agricola in cui poter impiegare altri giovani rifugiati in Italia in cerca di lavoro.
Chiedo a Mashud come vede il suo futuro, mi risponde che, oltre a continuare a fare l’agricoltore, non appena guadagnerà di più, gli piacerebbe sposare una ragazza del suo paese, «o perché no, magari una ragazza italiana!». Prima di congedarsi, mi regala una cassetta del suo amaranto o spinacio rosso, mi spiega come cucinarlo, e mi avverte: «una volta che si prova la verdura da me, non si cambia più!».
Anna Anselmi