Gli effetti del recente cambiamento climatico (vedi IV Rapporto dell’Ipcc – Intergovernmental panel on climate change – pubblicato nella primavera 2007) sono ormai evidenti anche sulla copertura nevosa, sia a scala planetaria, sia sulle Alpi.
Secondo i dati Noaa ottenuti da satellite ed elaborati dal Global snow lab, a causa dell’aumento delle temperature, dal 1972 al 2007 la superficie continentale mediamente coperta da neve nell’emisfero nord è diminuita del 6,4% (1,63 milioni di km2 in meno).
Se prendiamo ad esempio la situazione delle Alpi piemontesi, le numerose centraline poste presso gli impianti idroelettrici dei gruppo Enel e Iride Energia rilevano come negli ultimi 70 anni, a causa del riscaldamento, siano in diminuzione l’entità delle nevicate, lo spessore medio del manto nevoso e la sua durata. In modo più evidente al di sotto dei 1000/1500 m di altitudine.
In generale sulle montagne piemontesi la riduzione della nevosità (nel periodo recente 1990-2007 rispetto al precedente periodo 1961-1989) è stata ovunque variabile da -18% al Lago Saretto (1540 m, alta Valle Maira) a -32% a Entracque (900 m, Valle Gesso). Ancora più drastica appare la riduzione degli spessori medi della neve al suolo: pressoché ovunque sulle zone montuose piemontesi, sempre nel periodo 1990-2007, i valori medi annui di spessore nevoso al suolo si sono circa dimezzati rispetto al precedente periodo 1961-1989. Di conseguenza, la durata stagionale del manto si è nettamente ridotta, grazie anche alla maggiore frequenza di ondate di calore primaverili, che hanno indubbiamente contribuito ad accentuare la tendenza verso la fusione anticipata.
Considerando uno scenario ottimistico di aumento termico entro la fine del secolo, pari a + 1 °C, si nota come questo sarebbe già sufficiente – a quote intorno a 1300 m – a decurtare del 45% circa la neve fresca caduta nell’anno e a ridurre di un mese il periodo in cui il suolo è coperto di neve.
Considerando poi un aumento di 2°C (scenario peraltro tra i più probabili verso la fine del XXI secolo) alle medesime altitudini l’altezza della neve caduta si ridurrebbe dell’80% circa, e la copertura nevosa diverrebbe discontinua con ripetute fusioni complete anche in pieno inverno. E questo radicale mutamento non verrebbe scongiurato neppure se l’aumento termico fosse accompagnato da un incremento del 20% delle precipitazioni. Le riduzioni sarebbero meno marcate a quote intorno ai 1800 m, dove la neve fresca annuale diminuirebbe dal 17% al 30% circa, mentre le altezze del manto prospetterebbero una diminuzione media del 9%.
In merito al settore turistico, alla luce dei cambiamenti climatici in vista, è lecito domandarsi se il mantenimento o l’ulteriore sviluppo degli impianti di innevamento programmato costituiscano una strada accettabile per risolvere il problema della carenza di neve sulle piste. Se si considerano i costi economici, nonché quelli ambientali, la strategia appare poco sostenibile a media-lunga scadenza, tenendo presente l’enormità di risorse finanziarie, energetiche e idriche necessarie per il funzionamento degli impianti, a fronte di una prevedibile perdita di redditività dello sci alpino a seguito del riscaldamento globale, specialmente nelle stazioni di media e bassa montagna.
Secondo Burki (2000), in linea con quanto presentato fino ad ora, nel periodo 2030-2050, soltanto le località sciistiche sopra i 1600-2000 m potranno fare affidamento su una quantità di neve sufficiente per la pratica dello sci. A questo si aggiunga la difficoltà nel produrre neve programmata se le temperature non arrivano almeno al di sotto dei -4°C (si veda in proposito lo studio realizzato da Arpa/Sms, 2008).
Alla luce di queste considerazioni, si suggerisce l’eventuale mantenimento degli impianti di innevamento programmato soltanto ove questo sia sostenibile economicamente e consenta – con investimenti ragionevolmente contenuti – di attenuare/risolvere le principali crisi di innevamento. Questa situazione potrebbe realizzarsi soltanto oltre i 1800-2000 m circa, mentre a quote inferiori l’aumento delle temperature potrebbe spesso compromettere la funzionalità degli impianti anche in pieno inverno. Si tenga tuttavia presente che tale soluzione comporta elevati dispendi energetici con ulteriore incremento delle emissioni climalteranti, pertanto la sua espansione deve essere attentamente valutata anche in termini di esternalità negative.
Ove non sostenibile/conveniente il mantenimento degli impianti di innevamento programmato, è necessaria una progressiva conversione delle attività turistiche in vista di nuove condizioni climatiche, slegandosi per quanto possibile dalla monocultura dello sci di pista, privilegiando il più possibile approcci di fruizione dell’ambiente invernale non necessariamente innevato in modo ottimale, ma pur sempre ricco di fascino. Proponendo attività alternative quali l’escursionismo, l’equitazione, il turismo culturale e l’agriturismo, che tenga conto di modi più maturi di vivere il paesaggio invernale e la cultura alpina, per garantire la sopravvivenza e la rivitalizzazione del settore, anche di fronte a nuovi assetti ambientali della montagna piemontese.
Maurizio Dematteis
Inserito il – 05/12/2012 : 18:58:01
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Egregio Signor Dematteis
Pur condividendo gran parte delle conclusioni , mi permetto di far notare che ci sarebbe anche da considerare la possibilità della “specializzazione” nell’offerta invernale.
Ha senso continuare a finanziare il rifacimento di impianti al di sotto di certe quote?
Forse sarebbe piu’ lungimirante puntare su quegli impianti che, per loro ubicazione, garantiscano maggior certezze d’innevamento + acqua a km0 +elettricità a km0. In Svizzera questa discriminante è prassi consolidata.
Gli stanziamenti pubblici infrastrutturali sono indispensabili , sprecarli per garantire l’innevamento per i collegamenti dei grandi comprensori o dei “parchi divertimento” attaccati alle città… non ha senso. Anche se in Italia questa prassi ha un certo ritorno politico.
E vogliamo parlare della redditività stessa degli impianti? E’ assurdo credere che i costi degli impianti si ripaghino con gli introiti degli skipass . O almeno non con un numero sempre minore di sciatori, non con tutta la concorrenza “sleale” delle regioni a statuto speciale, o con i costi fissi della burocrazia italiana. Gli operatori turistici che hanno un ritorno diretto dalla presenza degli impanti , forse, dovrebbero considerare forme di contributo , privato, per garantire la continuità dell’attività.
Ultima cosa : il turismo invernale è anche escursionismo. una troppo stringente legislazione nazionale e regionale penalizza tutto il settore ed il suo indotto. Il riferimento è alle improbabili leggi su fuori pista, heliski, sci alpinismo , valanghe, ZPS, scadenza improrogabile vita tecnica impianti, indetraibilità spese per stagionali ecc. ecc.
Ok al global warming , ma non distruggiamo un settore che storicamente ci ha visto primeggiare in tutta Europa.
cordialmente
d.r. meccia