Nell’inverno 2015 mi trovo in un’area remota delle Alpi, per ragionare con le associazioni dei cittadini e i sindaci dei piccoli comuni su un tema sempre più sentito nelle aree interne del paese: come fermare l’esodo della popolazione da queste zone, uno spopolamento reso più drammatico anche dalle difficoltà che le attività economiche legate al turismo invernale stanno affrontando da quando la competizione sullo sci si è fatta più intensa, e la crisi post 2008 ha cominciato ad intaccare le già scarse opportunità di lavoro esistenti.
Ai margini della discussione mi si avvicina un giovane che si presenta come imprenditore. Indicandomi la corona di grandi montagne che ci circonda, mi chiede se, pur essendo gennaio, io veda neve in giro. Mi guardo intorno: i versanti e le cime sono spoglie e secche, la luce è grigia, l’aria gelata, ma la neve non c’è, nemmeno in alto. «Ecco, io ho investito 100 mila euro per rifare gli impianti di risalita, ho ricevuto una parte di finanziamenti pubblici, e ora di neve non ce n’è. Che faccio?».
Il problema, mi dice, è che non vede come potrà ripagare il debito contratto per l’investimento con le banche; sa che come funzionario pubblico posso fare ben poco per far tornare la neve, ma spera che io possa aiutarlo ad avere un permesso per costruire un bacino idrico da cui attingere l’acqua necessaria per alimentare i cannoni sparaneve; non posso, né so dargli una risposta precisa, ma esprimo tutti i miei dubbi sull’idea di costruire un invaso ad alta quota, in un’area con un dissesto idrogeologico spaventoso, dove, quando piove, le pareti sovrastanti i fondovalle scagliano letteralmente pietre e fango sulle strade usate quotidianamente per andare a scuola o al lavoro.
Continuo a pensare a quell’imprenditore e al tema che ha sollevato. Continuo a farlo anche nei giorni successivi perché alla fine quell’uomo non ha tutti i torti a rivolgersi a me, perché in quanto rappresentante delle istituzioni, la questione della neve riguarda anche me.
Vediamo perché. Il suo piano di rientro è stato calcolato sui guadagni accumulabili in un numero di giornate annuali di innevamento quali quelle che c’erano negli anni Settanta del secolo scorso, gli anni d’oro del boom dello sci. Oggi quel numero si è ridotto di quasi un terzo. Ha dunque sbagliato lui, facendo un piano finanziario senza tenere in considerazione un dato oggettivo e documentabile. Ha sbagliato perché poco informato, ma ha sbagliato anche l’amministrazione pubblica, che ha dato il via libera e cofinanziato un progetto fallimentare, che ora, per non naufragare, richiede interventi aggressivamente invasivi, che a loro volta necessiteranno, presto ed inevitabilmente, di altri interventi di ripristino, di “messa in sicurezza”, ancora più costosi.
Tutto questo perché, molto semplicemente, l’amministrazione pubblica non sa più guardare a ciò che è successo e sta succedendo nei luoghi, al mutamento nell’uso degli spazi, del clima, delle stagioni. Ha progettato, finanziato, costruito in base a una visione vecchia, una istantanea scattata 40 anni fa.
La realtà, mi dice il direttore del consorzio forestale dell’area, è che politiche pubbliche e cittadini non tengono conto del riscaldamento globale. «La terra intorno a noi sembra malata. Il cambiamento climatico è arrivato anche qui». E quando quest’uomo parla di cambiamento climatico, non ha in testa grafici e proiezioni, né pensa a cosa potrebbe succedere da qui ai prossimi cento anni, o ai problemi che pone il disgelo agli orsi bianchi. Il direttore del consorzio pensa alla valle dove vive, vede che con il ridursi dell’innevamento si sono ridotte le possibilità di guadagno, e quindi le opportunità di lavoro, e si rende conto che sono peggiorate le condizioni di sicurezza nel muoversi nei fondovalle e sui versanti delle montagne. Eppure ne attribuisce la colpa con sicurezza al cambiamento climatico, un fenomeno globale e fino a qualche anno fa considerato inafferrabile, e forse ha anche presente che in intere aree del mondo, anche del mondo occidentale, sono a rischio le vite di molte persone.
Gli effetti del riscaldamento globale, sosteneva Dale Jamieson solo qualche anno fa, nel suo libro Reason in the Dark Time sono così dispersi nel tempo e nello spazio, che è praticamente impossibile ricondurre i singoli fenomeni, come quello della riduzione della neve, al cambio climatico. Le affermazioni del direttore del consorzio sembrano mostrarci che non è più così, e le conclusioni dell’ultimo rapporto dell’IPCC, il panel scientifico dell’ONU sui cambiamenti climatici mettono l’accento proprio sullo slittamento del tema del cambiamento climatico da una dimensione percepita come astratta, distante, a una più immediatamente comprensibile, che pone problemi tecnici e politici nella vita quotidiana.
È in questo quadro mutato che si inseriscono due libri usciti quest’anno: La politica dal Cambiamento Climatico, di Anthony Giddens, e Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile di Naomi Klein, e a scriverli, non a caso, sono due tecnici della politica, non degli scienziati. I due libri si pongono il problema di come sia possibile, una volta che il tema sia entrato a far parte stabilmente dell’agenda politica delle relazioni internazionali, e che ormai anche il mondo scientifico sia unanime nel riconoscere la sua effettiva esistenza, farlo precipitare nella pratica delle politiche pubbliche e nella consapevolezza dei cittadini. Perché, nonostante siano passati oltre vent’anni dal summit di Rio, e oltre trenta dal rapporto di Roma, ancora oggi non si è riusciti ridurre le nostre emissioni di carbonio nell’atmosfera? Cosa bisogna fare?
Le risposte sono diverse e in una certa qual maniera opposte. Ambedue riconoscono l’urgenza del problema, e la necessità di un ripensamento radicale, ma l’una non mette in discussione i sistemi di potere, fa riferimento a una riconversione verde del mercato, e offre una soluzione tecnica, mettendo a fuoco un segmento specifico sul quale intervenire; il ruolo dello stato e delle sue strutture periferiche. L’altra individua chiaramente la causa politica di quest’empasse, il neoliberismo, e dichiara irriformabile il sistema capitalistico governato dalle multinazionali. In realtà ambedue gli autori confessano la parzialità delle soluzioni che loro stessi propongono.
Antony Giddens, un sociologo noto per il suo endorsement filosofico alla terza via di Tony Blair, offre una risposta da tecnico della politica; la parte più interessante del suo libro ruota intorno all’importanza di tradurre l’emergenza ambientale in interventi pubblici più incisivi, e su come il riscaldamento globale possa essere incorporato nelle scelte di politiche spicciole di governo del territorio. Forse proprio per il fatto di essere uscito in Italia solo ora, dopo essere stato pubblicato la prima volta nel 2009, il suo appare come un libro datato, che contiene una lunga disanima di dati in parte superati che risulta approssimativa e superflua, e che non esce dalla scia ideologica della semplice riconversione del sistema capitalistico ad un sistema di green economy, e da un’ottimistica visione delle opportunità che offre questa situazione per produrre profitti.
Questo è invece il rovello, il nodo critico dal quale prende le mosse il libro della giornalista Naomi Klein, che per respiro concettuale supera ampiamente quello di Anthony Giddens. La soluzione che propone Naomi Klein, non senza negarne le difficoltà, è politica, e si centra sull’inadeguatezza del sistema capitalistico che, per sua natura, appare incapace di recepire e di pensare un’economia diversa. Se Giddens decide di eludere il tema di come costruire il consenso necessario intorno alla soluzione tecnica, che appare in qualche maniera calata dall’alto, Naomi Klein fa un passo avanti, e pone maggiore attenzione alle pratiche di adattamento al cambio climatico che in molte parti del pianeta sperimentano cittadini autorganizzati, confessando però i suoi dubbi sulla effettiva percorribilità politica di queste soluzioni.
È cresciuto un nuovo tipo di consapevolezza, afferma Naomi Klein, che lega la questione climatica ai temi dell’equità sociale, da questo tipo di approccio nascono alleanze inedite che possono vedere dalla stessa parte movimenti sindacali e gruppi indigeni. Ma questi movimenti così frammentati saranno in grado di farsi egemoni tra gli elettori anche del primo mondo, che sono quelli che più degli altri beneficiano dei prezzi bassi della benzina? D’altra parte la stessa Klein lascia aperta l’opzione di una svolta più interna al sistema, indicando il “modello tedesco” come il più avanzato, un modello che vede una presenza più forte dello stato regolatore, in grado di promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini nelle scelte e di contenere gli appetiti insaziabili delle grandi multinazionali Ma nello stesso tempo esprime dubbi sul fatto che sia proprio questo atteggiamento istituzionale che abbia prodotto le condizioni che hanno impedito fino ad oggi la svolta auspicata.
Le vallate alpine sono ancora oggi luoghi bellissimi, anche se nel corso degli ultimi trent’anni hanno sofferto dell’effetto congiunto delle monoculture economiche, il turismo invernale in primis, e di un’infrastrutturazione spesso deturpante. L’agricoltura, il settore economico che nel nostro paese ha risentito meno della crisi, e la connessa cura del territorio, è pressoché in abbandono e oggi ha un ruolo del tutto marginale nella testa della gran parte dei cittadini. In alcuni casi queste aree hanno accumulato un deficit ambientale tale da essere oggi quasi inabitabili, mentre l’abbandono massiccio da parte della popolazione le pone lontano dai centri decisionali e ne causa marginalità politica. E non c’è bisogno di proiettarsi in un futuro remoto per capire che nel giro di pochi anni queste aree saranno del tutto inabitabili. È un’emergenza, eppure la sensazione è che non abbiamo gli strumenti con cui intervenire rapidamente, dall’alto, perché questi giardini possano tornare a fiorire.
Ricostruire un giardino, come dice Gilles Clement, è un progetto politico, perché per sua natura “il giardino contiene il ‘meglio’: ciò che si ritiene più prezioso, più utile, più equilibrante. E l’idea del “meglio” cambia nel corso della storia. Non si tratta di organizzare la natura secondo una scenografia rassicurante, ma di esprimere in esso un pensiero concluso dell’epoca in cui si vive, un rapporto con il mondo, una visione politica”.
Probabilmente la soluzione a questa emergenza va cercata nei territori, nelle pratiche di sopravvivenza che i cittadini e amministratori sperimentano già oggi di fronte alle difficoltà dei mutamenti climatici, e di fronte ai quali sono troppo spessi lasciati soli. C’è molto da apprendere da queste soluzioni spicciole che devono essere ascoltate, promosse e qualificate. Bisogna che gli abitanti delle montagne si trasformino in giardinieri della montagna, competenti, motivati dall’amore per i luoghi in cui vivono e determinati a continuare a viverci.
Filippo Tantillo