E’ una domenica di neve e di sci in alta Val Susa. A Claviere, piccolo paese a 1.760 m. d’altitudine, i turisti sono in fila alle seggiovie. Di neve, poi, ne è scesa tanta, finalmente; anche troppa, in questo inizio di gennaio colpito dagli effetti perversi del riscaldamento globale. L’economia del posto ricomincia a girare, tutto sembra normale. Le Alpi fanno il loro dovere: di strumento di lavoro per alcuni, di campo di gioco per altri.
Ma questi monti, che appena al di là dei valichi portano in Francia, hanno ritrovato da poco tempo anche un’altra funzione, che si credeva ormai legata al passato: quella di confine, di muro. Un’immagine stridente rispetto a quella ludica, di libertà assoluta, associata alla fruizione sciistica delle montagne. La barriera “naturale” – quell’invalicabile protezione per il nostro Paese rispetto al “barbaro invasore”, su cui Mussolini intendeva fondare l’ordine militare dell’Italia – è stata riscoperta e viene oggi velocemente ri-tematizzata come tale, ma, ironia della sorte, da parte di chi vive dall’altro lato. Un nuovo ordine europeo si va facendo strada, basato sulla chiusura difensiva verso l’immigrazione straniera: le Alpi tornano ad essere confine, nell’ambito di una Unione a rischio di disgregazione, dove gli interessi nazionali vengono riproposti con forza come principale riferimento per le politiche degli stati membri.
Domenica 14 di gennaio le piste di discesa e di fondo di Claviere hanno assistito all’inedita compresenza di due montagne tanto diverse, quanto fisicamente coincidenti, segno di una tra le molteplici contraddizioni in cui tutti oggi viviamo: da una parte, il carosello degli impianti di risalita e degli sciatori in tuta colorata, dall’altra una marcia di alcune centinaia di persone, che hanno risalito i pendii innevati dal versante italiano e da quello francese, sotto lo striscione che recitava “Brisèr les frontieres!”, abbattiamo le frontiere. Italiani in gran parte, e in tanti dall’area del movimento no TAV, ma anche stranieri, qualcuno africano. Cittadini comuni e signore con il cane, ragazzi, non pochi venuti da Torino.
La marcia ha congiunto idealmente i due lati della catena alpina nei pressi del Monginevro, il passo storicamente più utilizzato per transitare tra Roma e le Gallie, forse scavalcato dallo stesso Annibale; divenuto poi un valico fondamentale sulla via Francigena, oggi, anche con tre metri di neve, il passo è varcato, a volte con le infradito ai piedi, da decine di profughi ogni giorno, nel tentativo di entrare in Francia dall’Italia, eludendo il blocco delle frontiere a Ventimiglia, imposto con la sospensione unilaterale del trattato di Schengen da parte del governo francese. Molti ce la fanno, aiutati dalla popolazione locale. Altrettanti rinunciano, tornano a valle, sconfitti dalle difficoltà di attraversamento in condizioni invernali, senza abbigliamento adatto, senza cartine o indicazioni. Alcuni muoiono assiderati o rimangono congelati.
Scrivono i promotori della manifestazione: «Ripensando alla giornata di domenica, ci rendiamo conto che la frontiera del Monginevro sembrava un posto lontano e difficile da raggiungere per fare una grande manifestazione, ma ogni distanza è stata abbattuta dalla forza della solidarietà ribelle giunta dalla Valle, da Torino e anche da molto più lontano. Hanno marciato sulla neve del colle centinaia e centinaia di persone, giunte fin qui per ribadire un messaggio ben preciso: libertà di circolazione per tutte e tutti! Queste frontiere uccidono e tentano di spezzare il futuro di chi è obbligato ad abbandonare la propria terra. Noi non resteremo a guardare. Briser les Frontières!».
Se questo è lo spirito con cui è stata convocata la marcia, sul sito NoTAV.info si mette in luce la drammatica contraddizione tra la libera circolazione delle merci imposta come dottrina dalla UE (anche a discapito di chi vive i territori che si vogliono attraversati da flussi di container e da treni “ad alta capacità”) e la crescente restrizione ai movimenti di persone: «La barriera fisica delle montagne alla testata della vallata è resa selettiva dai governi, per le persone ma non per le merci. Per l’inutile e sovrastimato passaggio di queste ultime ci opponiamo come Movimento No Tav alla realizzazione di un’opera da miliardi di euro. Per il passaggio delle persone ci battiamo per la libertà di circolazione. Scegliere dove costruirsi un futuro non deve implicare per forza intraprendere sentieri pericolosi con il rischio di morire sui nostri colli. Riteniamo inaccettabile l’utilizzo della montagna come strumento per l’arricchirsi di pochi, scavando un buco verso la Francia dall’inutilità conclamata. Allo stesso tempo rifiutiamo l’utilizzo di queste stesse montagne nel distruggere la vita delle persone che vi transitano».
Dunque da un lato le Alpi definite dalla strategia UE Eusalp, ovvero uno spazio permeabile e fluido di commercio, transito, estrazione di risorse naturali e rilancio della qualità della vita, al centro dell’Europa più ricca. Dall’altro lato, le Alpi come muro, come strumento di selezione “naturale”: un filtro in grado di separare la pula dal grano. E di lasciare la pula al suolo, o di risoffiarla indietro con i venti delle cime, là da dove era venuta, tenendosi il grano migliore, quello redditizio.
Scrive Cristina Del Biaggio, ricercatrice all’Università di Grenoble (nel volume collettivo Alpine Refugees, in uscita entro la fine del 2018 e di cui parleremo più avanti in questa rubrica): «Dall’autunno del 2015 le Alpi sono diventate a tutti gli effetti il confine meridionale dell’Europa. Le frontiere italo-francese, italo-svizzera, italo-austrica e croato-slovena sono diventate una linea di frizione e di tensione all’interno dell’Unione. E’ un fenomeno che ricorda gli eventi della seconda guerra mondiale: gli ebrei in cerca di rifugio e di asilo videro anche allora, 80 anni fa, i confini sbarrati di fronte a loro, specialmente verso la Svizzera. Oggi altre popolazioni incontrano i medesimi meccanismi di respingimento, attraverso la riproposizione dei controlli di frontiera aboliti dal codice Schengen e ora riproposti come “misura temporanea”, con l’intento di bloccare i cosiddetti “movimenti secondari” di persone, ovvero il tentativo dei migranti di raggiungere il nord Europa, evitando di rimanere intrappolati nel nostro Paese».
Il fenomeno dei rifugiati nelle Alpi è ormai qualcosa di ineludibile per chi si occupa di sviluppo delle terre alte o semplicemente per chi in esse vive e lavora, che si tratti di turismo o di “nuovi montanari”, di mobilità sostenibile, di agricoltura in quota o di contrasto allo spopolamento. I profughi sono sparsi quasi ovunque nell’arco alpino, soprattutto sul versante italiano: deportati nelle località di montagna in attesa del riconoscimento o meno della protezione internazionale oppure in marcia, nel tentativo di scavalcare questo secondo drammatico ostacolo, dopo le peripezie legate all’attraversamento del Mediterraneo.
Sono l’Altro che incontriamo ai bordi delle piste di sci o al ritorno da un’escursione sugli alpeggi. L’Altro che scorgiamo al bar di un albergo in disarmo, in un’attesa indefinita e vuota, oppure impegnato nel risistemare sentieri e muretti a secco di qualche borgata, grazie al progetto intelligente di uno SPRAR locale. Intrappolati spesso tra le nostre valli, “montanari per forza”, a volte in cerca di un senso per restare sui nostri monti, più spesso di un’occasione per fuggirne. E oggi, addirittura, “alpinisti per forza”, nel tentativo di raggiungere, affondando nella neve, una vita dignitosa, oltre qualche valico alpino.
Ripenso allora alle parole di Bill Tilman, il romantico alpinista inglese, che tra le molte avventure è stato anche partigiano sulle nostre Alpi. Una frase che ho appena ritrovato stampata su di un quotidiano, come pubblicità per una serie di volumi sull’alpinismo: «Nessuno va più lontano o più veloce dell’uomo che non sa dove sta andando». Non riesco ad immaginare maggiore distanza tra chi in montagna ci va per la passione di inventare una via, o per il piacere di vagare senza una meta e chi, costretto a salire le cime dalla necessità, vorrebbe fortemente sapere dove lo condurrà quella traccia di sentiero che intravvede appena nella neve.
Eppure è proprio nella relazione, per non dire nell’alleanza, tra chi sale per il desiderio e chi lo fa spinto dal bisogno, che credo possiamo scorgere i segni di un nuovo modo di vivere e di concepire la montagna.
“Per forza” e “per scelta” possono declinarsi insieme, a partire dal superamento dei confini.
Andrea Membretti