Negli ultimi anni accade spesso che chi frequenta da molto tempo la montagna lamenti gli effetti del suo recente successo, che porta al “sovraffollamento”, in particolare, delle località più note, con conseguenze spesso sgradite. Le Dolomiti, patrimonio naturalistico e culturale di fama internazionale, sono sicuramente un osservatorio privilegiato di questo fenomeno, letteralmente esploso dopo il confinamento forzato causato dalla pandemia di Covid-19. Sulla scorta di simili riflessioni, nell’estate del 2022 abbiamo esplorato, con la ricerca “Bottom- up: la montagna vista dal basso”, i modi in cui vecchi e nuovi appassionati immaginano e rappresentano sia lo spazio montano, sia la pianura dalla quale partono gran parte delle loro uscite. Grazie a un piccolo ma generoso finanziamento concesso dal Gruppo Terre Alte del CAI Centrale attraverso il bando promosso annualmente, la ricerca si è mossa, appunto, “bottom-up”, ossia dal basso verso l’alto, interessandosi di inquadrare, con questionari e interviste individuali, i grandi e piccoli desideri, i bisogni e gli interessi che spingono molti di noi a prendere l’auto e infilarsi nel traffico per arrivare a salire tra boschi, pascoli, ghiaioni e rocce. La ricerca, di carattere esplorativo, ha avuto dunque l’intento di osservare i vissuti e l’immaginario che riguardano lo spazio montano, ma con una prospettiva tesa a inquadrare, con la montagna, anche la pianura, la città, spazi spesso rimossi dai ritratti della passione alpina, sfondi lontani eppure fondamentali per comprendere il quadro nel suo insieme.

Senza pretese di esaustività – che richiederebbe la messa in campo di ben altre forze – l’indagine ha dunque approfittato delle metodologie offerte dalla ricerca sociale concentrando la raccolta dei dati su un territorio specifico: la Val Pramper, piccola valle zoldana dall’elevato valore naturalistico, intagliata tra cime poco note delle Dolomiti Bellunesi, ma affacciata con un raggio appena più ampio a colossi dolomitici quali Pelmo e Civetta. Per rispettare la timeline prevista dal bando, i dati sono stati raccolti in particolare tra giugno e luglio, sia tra gli avventori delle (poche) strutture site in valle, sia nei gruppi che, attraverso i social, si scambiano informazioni e immagini sulle escursioni e sulle peculiarità della valle e di quelle vicine. Hanno partecipato alla ricerca uomini e donne provenienti soprattutto dal contesto veneto e in particolare dalle province limitrofe; spesso di età compresa tra i 30 e i 40 anni o tra i 40 e i 50. La valle offre numerosi percorsi di stampo alpinistico, una facile ferrata e molte vie d’arrampicata; gli itinerari più noti e frequentati, tuttavia, sono quelli di stampo escursionistico. Anche a motivo di ciò, la ricerca ruota intorno a questo tipo di attività: certo non l’unica che ha visto crescere negli ultimi anni il numero di appassionati (si pensi alla MBT, all’e-bike, all’arrampicata…) ma, almeno in questo caso, la più praticata.

Di frequente, i disagi causati dal “sovraffollamento” di sentieri e rifugi (nonché di strade e parcheggi) e lo scarso know-how di parte dei nuovi frequentatori portano a liquidare il successo della montagna come una moda, per molti versi deleteria. Un’indagine pur esplorativa delle motivazioni che “spingono” le persone a scegliere di trascorrere il tempo libero in montagna permette tuttavia di allargare lo sguardo e di introdurre temi profondi, questioni di interesse generale che valicano, pur includendolo, l’orizzonte alpino. Attraverso la collaborazione con l’illustratore Marco Lisci, è stata elaborata una breve vicenda a fumetti pensata per interrogare gli appassionati presenti e futuri su come, da “cittadini”, guardiamo alla montagna.

Ripercorrendo questionari e interviste, si notano il disappunto, il disagio, talvolta il malessere causato da un deterioramento dello spazio urbano (inquinamento, traffico…) che coinvolge spesso le aree verdi e molti ambienti “naturali” diversi da quello montano (ad esempio il litorale marino). Dove andare, per cercare un ambiente meno stressante di quello urbano? Fagocitata la campagna, la metropoli estesa del Nord-Est manca spesso di grandi parchi cittadini in grado di soddisfare, nella quotidianità, l’esigenza di muoversi e respirare in uno spazio rilassante e “silenzioso”. Il successo della montagna può certo contribuire a oscurare l’esistenza di spazi altri, di minor prestigio sociale, ma quanto riflettiamo sulla carenza di alternative che può indurre le persone a spostarsi verso le terre alte?

Definire un fenomeno come una “moda” porta spesso a banalizzare le motivazioni da cui originano le scelte di chi la segue; senza negare la pluralità di ragioni – anche “leggere” – che possono portare le persone ad avvicinarsi alla montagna, tali considerazioni sollevano importanti interrogativi rispetto a questioni di giustizia generazionale, sociale, economica. Ci si domanda spesso in che condizioni si presenteranno gli ambienti naturali agli adulti del futuro, meno spesso, forse, ci si chiede quali standard di vita offriranno le città, se governate secondo le politiche attuali, anche alla luce dei gravi danni e disagi creati dal cambiamento climatico. Parimenti, ci si lamenta spesso delle masse che invadono le montagne, meno spesso ci si preoccupa delle alternative che si offrono a tutti coloro i quali non possono accedere ad ambienti di pari valore naturalistico per motivi di carattere economico, per età, condizioni di salute o di svantaggio sociale. Interessante notare, inoltre, come stando ai dati raccolti nella ricerca la passione per le alte quote nasca talvolta anche dalla carenza di stimoli d’altro genere – in primis, culturali – offerti da spazi urbani che rischiano di risultare non solo rumorosi, inquinati, stressanti, ma al fondo anche noiosi (quantomeno per determinati gruppi sociali) e non sempre adatti a promuovere la socialità. Puntare i riflettori sulle montagne, territori spesso fragili, è urgente e doveroso; ma non potrebbero anche la cura, il ripristino, la tutela dettata dal rinnovato senso di appartenenza comunitario di altre aree contribuire positivamente all’equilibrio ambientale e sociale complessivo, alleggerendo al contempo la pressione sulle terre alte?

Vista con gli occhi di chi “fugge” dalla città, la montagna appare molto spesso come uno spazio di “libertà” (il secondo termine in ordine alla frequenza lessicale, dopo “silenzio”, tra le cinque parole scelte per descrivere la montagna nell’apposito spazio lasciato nel questionario). Sebbene la disamina delle interpretazioni possibili sia molto ampia, si può subito pensare questa libertà nei termini del tempo a disposizione che vi si trascorre, lontano dai vincoli lavorativi e degli impegni giornalieri, ma anche una libertà spaziale, determinata da una strutturazione dello spazio di movimento relativamente (o forse: apparentemente) meno vincolante rispetto all’estrema segmentazione della pianura, dove lo sguardo e i movimenti sono spesso costretti e irregimentati. Osservata da questa prospettiva, la montagna assume un carattere quasi mitico e rischia però di perdere i connotati che sono propri di ciascuna zona dal punto di vista storico, culturale, antropologico. Per alcuni tra coloro che hanno partecipato all’indagine andare in montagna costituisce una sorta di viaggio nella storia, nell’architettura, in una toponomastica che suggerisce vicende passate e affascinanti. Molti, tuttavia, tendono a escludere dalle loro escursioni i paesaggi che, ponendosi a quote relativamente basse, includono borghi, contrade e colture. L’amore per gli aspetti “naturalistici” rischia in tal senso di offuscare la consapevolezza di recarsi in spazi abitati – sebbene magari in modo diverso da quello col quale si abita lo spazio urbano – nei pressi dei quali vivono comunità che possono essere influenzate dalla presenza degli appassionati sì positivamente (si pensi alle attività economiche), ma anche negativamente (come può facilmente immaginare chi abiti in una località turistica di altro genere). Non solo: la predilezione per le alte quote può determinare la categorizzazione degli spazi alpini in luoghi “di serie A” e “di serie B” in base a una lettura banalizzante delle altimetrie.

Nei confronti dell’attività antropica si costituisce così uno sguardo ambivalente, contraddittorio: da un lato si ricercano in modo generalizzato la cura e la sicurezza dei sentieri e dei percorsi, dall’altro si vorrebbe una montagna “incontaminata” e selvaggia; da un lato si apprezzano i servizi (rifugi, strutture, informazioni accessibili…), dall’altro si vorrebbe, più di ogni altra cosa, trovare in montagna ambienti meno antropizzati. Se simili contraddizioni scaturiscono dal bisogno potenzialmente fecondo di costruire spazi di relazione positivi con il mondo naturale (lontani dalla percezione della montagna come “parco giochi” o parco avventura), esse celano anche il rischio di nascondere le terre alte come spazio abitato, che detiene storie, rappresentazioni, bisogni non necessariamente riconducibili all’universo dei servizi turistici, ricettivi, o al mondo dell’alpinismo. La contraddizione porta tuttavia in sé una soluzione, forse una necessità: anziché schierarsi pro o contro l’antropizzazione (come spesso siamo invitati a fare, come se ne esistesse un unico modello), occorre individuare quelle pratiche, quelle relazioni attive tra esseri umani e ambiente capaci di contribuire al benessere di entrambi (ad esempio, la cura del bosco e dei percorsi che lo attraversano), imparare a riconoscerle come tali e a esportarle. A dispetto dell’apologia del “selvaggio”, inoltre, il riconoscimento degli aspetti culturali che si dipanano dai paesi alle cime non farebbe che arricchire di dettagli l’esplorazione di uno spazio plurale come quello alpino: non esiste del resto “la montagna”, ma esistono le montagne, blasonate o dimenticate, antropizzate o inselvatichite, vissute o abbandonate, segnate da peculiarità geologiche, naturalistiche, ma anche sociali, culturali e storiche.
Silvia Segalla, PhD in Scienze Sociali, Giulia Storato, PhD in Scienze Sociali

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