Sgombriamo subito il campo dai luoghi comuni. Il patrimonio architettonico sottoutilizzato delle nostre valli non è solo quello costituito dalle borgate in abbandono.
Al di là dell’indubbia qualità architettonica e paesaggistica delle borgate storiche e del loro valore strategico in un’ottica di riqualificazione del territorio montano, dobbiamo però ricordare che la porzione di stock edilizio più considerevole è quella costituita da tutto ciò che è stato prodotto negli anni della cementificazione: insediamenti produttivi, infrastrutture, villette nei fondovalle e residenze secondarie, impianti sportivi, strutture ricettive nelle aree vocate al turismo. Che fare dunque di tutta quella cubatura che anche in montagna è stata realizzata negli anni in cui il settore edilizio era uno dei motori dell’economia del Paese?

Ora che la particolare congiuntura economica ha rimesso in discussione il sistema su cui si sono basati decenni di politiche territoriali (tanto dalla parte dei governi quanto dalla parte delle amministrazioni locali) ciò che viene drammaticamente a delinearsi è la necessità di un Progetto.
Se si vuole andare oltre la crisi è necessario mettere a punto un progetto di ampio respiro che prenda in considerazione il patrimonio architettonico e il capitale fisso territoriale nella sua interezza valutando con attenzione tutte le possibilità di utilizzo e di riconversione.
A questo proposito torna ad essere centrale il tema del “valore d’uso” del patrimonio edilizio – a valle di decenni in cui invece si era esclusivamente ragionato in termini di valore di scambio – operando quella sorta di “decolonizzazione dell’immaginario” cui fanno riferimento le recenti teorie sulla decrescita (Latouche S., Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, 2010).
Un progetto che a differenza di quanto fatto finora non va inteso necessariamente come implementativo ma che muove invece dalla sottrazione e dalla ritrazione. Sembra dunque urgente pianificare, anche nel territorio alpino, una corretta e consapevole “ritirata” che tenga conto da un lato del patrimonio edilizio esistente e dall’altro delle reali risorse disponibili per trasformarlo.
Quali strategie per attuare un simile progetto?
Innanzitutto convincersi che forse non tutto sarà recuperabile e bisognerà avere il coraggio di selezionare.
Lavorare cioè alla luce di progetti integrali che permettano di stabilire delle gerarchie, di valutare, di distinguere ciò che è possibile riconvertire da ciò che magari potrebbe essere eliminato definitivamente (compatibilmente con i costi di ripristino e di demolizione).
Reinsediare delle funzioni che facciano tornare il contesto alpino un luogo di vita e di lavoro, grazie alle più interessanti opportunità che i territori “rarefatti” possono offrire, ma anche alla concorrenzialità dei valori immobiliari dei centri alpini rispetto a quelli urbani. Parallelamente provvedere alla dotazione di servizi di trasporto adeguati che possano rendere realmente praticabili le scelte di “delocalizzazione” dei nuovi abitanti, magari attraverso il riuso e la riconversione delle tratte ferroviarie storiche in linee suburbane come è stato fatto in alcune realtà alpine.
Continuare a lavorare sulla riqualificazione energetica come occasione per avviare interventi di recupero del patrimonio edilizio. Il tema dell’autosufficienza energetica è potenzialmente un ambito in cui sono attivabili delle risorse, oltre a muoversi nella direzione di una condivisibile scelta di limitare l’impatto ambientale.
Ma la vera scommessa sta nella capacità che avremo in futuro di mettere in cortocircuito ambiti che molte volte rimangono relegati nei confini delle proprie specializzazioni. Creare occasioni di natura trasversale e innescare così delle progettualità inedite: storia, paesaggio, agricoltura e allevamento, turismo, patrimoni artistico-architettonici, capitale umano e sociale debbono essere messi a sistema per cercare degli scenari condivisi.
Compito dei progettisti sarà quello di tradurre queste istanze in immagini fisiche, in figure, in territori, in visioni d’insieme. Solo in questo modo è dunque possibile tornare a leggere l’architettura e l’ingegneria non come pratiche divoratrici di suolo ma come competenze e professionalità a disposizione delle comunità locali che possono lavorare in modo sinergico con gli altri attori del territorio per contribuire alla costruzione di un orizzonte di senso per la montagna di domani.
Roberto Dini