Parlare del rapporto che intercorre tra architettura e turismo in un contesto come quello montano è un’operazione complessa che vede intrecciarsi temi molto differenti che inevitabilmente toccano questioni legate all’attrattività del paesaggio alpino. In estrema sintesi si può constatare come le progettualità in atto oggi nell’arco alpino esprimano un generale cambio di sensibilità e un tangibile cambio di rotta rispetto a qualche decennio fa. La ricerca esasperata dell’“autentico” ha portato inevitabilmente in passato a fare di alcuni luoghi alpini un “teatro” per la messa in scena di un illusorio spettacolo della tradizione. A valle della stagione dell’“oro bianco” le trasformazioni architettoniche nel contesto montano erano univocamente indirizzate alla creazione di ambienti pseudo-rustici che si confacessero alla rinnovata attenzione per il locale che ha costituito un importante cambio di direzione rispetto agli anni del boom. La mutazione recente delle forme del turismo disegna invece il profilo di utenza nuovamente in divenire. L’avvento del turismo slow, quello dell’escursionismo, degli agriturismi, degli alberghi diffusi, delle “ciaspole”, si fa oggi portatore di uno sguardo disincantato verso il mondo alpino che non crede più alle facili illusioni del folklore e delle tradizioni reinventate. Il turista che frequenta oggi la montagna predilige e ricerca luoghi “autentici” in cui trovare e sperimentare percorsi di vita sì alternativi a quelli urbani, ma con una consapevolezza ed un senso critico decisamente più attento.
L’architettura alpina, in questo nuovo scenario, perde il suo ruolo di quinta appagante figlia di un’idea stereotipata della montagna per acquisire un ruolo decisamente più forte e responsabilizzante. L’architettura deve essere in grado oggi di tenere assieme insiders e outsiders: i luoghi cessano di essere dei parchi a tema per riscoprire invece una dimensione in cui culture, economie, stili di vita diversi si incontrano e si confrontano. L’autenticità richiesta oggi al paesaggio alpino deve necessariamente passare attraverso le reali pratiche di uso e trasformazione che lo caratterizzano. Il successo di alcune operazioni di carattere architettonico e di valorizzazione del paesaggio nelle Alpi di oggi ci mostra come non siano più le architetture per il turismo – come è stato in passato – ad essere portatrici di innovazione. La vera sfida dell’architettura di qualità si gioca oggi soprattutto sul piano degli edifici produttivi, di quelli commerciali, dei servizi, in una nuova dimensione dell’abitare più totalizzante in cui l’ambiente alpino non è più solo un parco giochi per l’uomo di città ma un luogo abitato in cui è possibile vivere e lavorare. L’architettura contemporanea di qualità, come ben testimoniato dalle recenti esperienze del Sudtirolo, della Svizzera o dell’Austria, è proprio quella che sta metabolizzando questo processo. L’architettura diventa “vera” e “autentica” proprio quando muove dalla reinterpretazione delle culture locali, della tradizione, del paesaggio, dell’innovazione, sempre nell’ottica però di rispondere alle esigenze abitative reali di chi sulle Alpi ha scelto di vivere.
In un contesto come quello alpino contemporaneo – fortemente segnato sia dalle spinte provenienti dall’esterno che dalle forti identità presenti all’interno – l’architettura non può che farsi portatrice di questa prepotente istanza di ibridazione e contaminazione tra mondi e realtà differenti. A maggior ragione nel campo della ricettività, l’architettura acquisisce nuovi orizzonti di senso quando prova a intrecciare il turismo con il lavoro e la produzione, oppure con la cultura, o ancora più in generale con la fruizione del territorio. È questa l’architettura che oggi ricerca il turista attento. Un’architettura che non ha bisogno dei tetti in lose e dei fiori sui balconi per rivendicare la propria alpinità, ma che con pragmaticità è in grado di rispondere ai bisogni di chi in montagna vive e che sa accogliere in modo sincero coloro che la frequentano anche solo saltuariamente. Un’architettura che ha un po’ più il colore del legno invecchiato e sbiadito dalle intemperie e meno di quello degli impregnanti che per decenni hanno cercato di conservarne un’autenticità senza significato.
Mattia Giusiano e Roberto Dini