Quindici anni fa, quando concludevo il libro su La nuova vita delle Alpi, mi pareva chiaro il punto di partenza: la civiltà tradizionale alpina era finita per sempre. Se si aveva il coraggio di partire da quel presupposto, tutt’altro che scontato dopo decenni di letture acritiche e agiografiche, restavano sostanzialmente tre possibilità per le Alpi: o tornavano a vivere in forme nuove, ancora in gran parte da inventare, oppure erano destinate a diventare il museo di se stesse o, peggio ancora, la periferia della città.
Le ultime due strade erano state rovinosamente percorse negli ultimi decenni del Novecento, al punto che i montanari – per soddisfare la nostalgia dei cittadini (o di se stessi?) – sembravano ormai disposti a recitare la parte del “buon selvaggio” al tempo di internet, o viceversa, sul versante opposto, si erano adeguati a fare i camerieri del modello consumistico nei suburbi d’alta quota, subendo la crisi di un sistema che nemmeno gli apparteneva, e ciò nonostante avevano creduto infallibile.
La terza via era assai meno evidente delle altre due, e tutta da sperimentare, anche se mi sembrava chiaro che la Convenzione delle Alpi avesse indicato il cammino, ponendosi come una profetica carta di principi sovrastatali e sovralocali cui gli stati e le comunità alpine avrebbero potuto ispirarsi, adattandoli alle singole situazioni. Era la via dello sviluppo sostenibile, un concetto così frusto e dialetticamente abusato da apparire quasi superato, obsoleto, eppure fondamentale se si provava a guardare alle Alpi come a un luogo da difendere e salvaguardare. In forme vive, non museali.
Oggi, dopo un quindicennio che ha marcato il dislivello culturale e amministrativo tra le Alpi tedesche e le “altre”, mi sembra che il cambiamento invocato non sia avvenuto, almeno sulle Alpi italiane, anche se la montagna è “tornata di moda” e un libro di montagna ha vinto il Premio Strega 2017. Purtroppo i giornali, il web e le televisioni continuano a inseguire il solito vecchio schema bipartito, con le nostalgiche Alpi della tradizione da un lato e le “moderne” Alpi del divertimento (consumo) urbano dall’altro. Sul piano delle politiche è cambiato altrettanto poco, perché se si escludono le regioni a statuto speciale non si nota alcun interessamento significativo dei governi regionali italiani per i destini delle loro montagne, tuttora considerate arretrate e perdenti, almeno dal punto di vista elettorale. E anche le regioni autonome a statuto speciale (Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige) sembrano purtroppo preda di vecchie logiche e frusti modelli di “sviluppo”, con l’aggravante che non ci sono più i soldi di una volta.
Invece tra le avanguardie si è mosso qualcosa, e lo dimostrano gli incoraggianti casi di buone pratiche rintracciabili sull’arco alpino. Oggi abbiamo indubbiamente gli strumenti teorici e i modelli pratici che servirebbero a progettare e costruire un futuro alternativo per le terre alte. Basterebbe volerlo, e smettere di parlarsi addosso.
Il caso Val Maira, pur tra le difficoltà, le discussioni, le derive, le correzioni e i ritorni, prova storicamente l’ultimo assunto. Conferma che non può esistere un futuro sostenibile per la montagna sulla quale è stato applicato un modello insostenibile, come per esempio nei grandi comprensori turistici invernali. I “poveri” paradossalmente possono ripartire, mentre i “ricchi” possono solo insistere su una strada sempre più tortuosa e pericolosa. La Val Maira e i Percorsi Occitani dimostrano che un progetto chiaro e lungimirante può portare lontano, mentre l’imitazione dei progetti perdenti – ancora la più in voga – crea solo illusioni di corto respiro, e dal danno senza fine.
Enrico Camanni
Vero. Quel che accade nel globo terracqueo, certo non incoraggiante, pare abbia contagiato anche le Alpi. Che al posto di adempiere finalmente al loro compito di luogo-laboratorio paiono tornare indietro. Toranare a scelte vecchie, senza futuro, talvolta meramente speculative. Vedi la quantità ingente di risorse stanziate dalle regioni, autonome e non, per gli invasi per lo sci di pista. O il proliferare di piste inutili, dannose. Così, quando ci si imbatte in esempi lumionosi, o semi-luminosi, ci lasciamo illuminare nella speranza che anche lì la luce no si affievolisca.
E allora un po’ di luce si accende non sulle Alpi ma sull’Appennino piemontese dove un giovane sindaco chiede l’istituzione di una parco. Evviva, parliamone, va incoraggiato
bravo Enrico. Saluti dalla Carnia che non riparte. Timilin
Un bello scritto ma mi sfugge quale sia la TERZA via descritta.
Il mio pensiero è che oggi la montagna possa essere NON DIVERSA dalla pianura sotto il profilo delle variabili economiche, e profondamente diversa sotto il profilo ambientale.
I cambiamenti epocali nel mondo dellaproduzione e delle comunicazioni consentono di fare oggi in ambiente alpino molte delle cose che si fanno abitualmente nelle pianure.
Se invece confini l’ambiente alpino ad una vocazione solo turistica lo ghettizzi, e magari anche lo stravolgi.
Il principio di fondo, valido per montagne e pianure dovrebbe essere quello di viverci, sviluppando attività economica, senza alterare apprezzabilmente l’ambiente.
Non pretendo in maniera rigorosa, ma almeno tendenziale.
Carissimo Enrico, concordo. Credo e auspico che le scuole di alpinismo del CAI diventino portatrici di dialogo tra città e montagna, di scoperta e di proposta, dove “l’insegnamento” dell’alpinismo non sia una forma di consumo del territorio, ma di integrazione.
Beppe di Alpiteam