Dal 6 all’8 maggio quasi centomila Alpini con famigliari e amici al seguito hanno invaso Torino per la loro 84° adunata nazionale. Ad essi si sono aggiunte alcune centinaia di migliaia di torinesi e una folla così nel centro non s’era mai vista.  Ma quello che più ha colpito, al di là della dimensione, è stata la qualità dell’evento. Anzitutto l’auto-organizzazione: le migliaia di camper, roulottes, tende, furgoni e mezzi vari – dai carretti  ai trattori – hanno trovato tutti la loro collocazione in giardini, piazze e vie, anche e soprattutto nel centro. Poi la grande educazione, il rispetto delle regole di convivenza civile. Ad esempio s’è vista molta meno immondizia in giro di quanto ne resta di solito attorno a Piazza Vittorio o al Quadrilatero dopo le notti brave dei normali fine settimana torinesi
Ma la cosa più straordinaria, per noi, ormai abituati a cercare la nostra felicità individuale nello shopping, è stato scoprire che ci si può divertire moltissimo solo stando insieme, anche senza spendere niente, oltre a un po’ di vino o di birra e qualche panino: chiaccherando con tanta gente diversa, ascoltando le bande, cantando, ballando. Insomma s’è riscoperta una convivialità e una socialità più concreta e  corporea di quella dei blog, chat, Facebook e web 2.0 vari. E tutto questo, anche senza essere alpini, con gente mai vista prima, nessuna tessera, iscrizione, programma. Insomma un’esperienza piacevole, inattesa e gratuita.
Lo ricordo non per tessere l’elogio degli alpini, che non ne hanno bisogno, ma per arrivare a una riflessione sull’“alpinità”. Perché “alpino” non è solo un nome (sia pure glorioso come “granatiere”, “bersagliere” ecc). E’ un nome che deriva da un rapporto storico-genetico con quel certo tipo di ambiente che è la montagna. Un tempo bisognava essere montanari ( o quasi) per entrare nel Corpo degli alpini. Perciò il  DNA,  lo spirito, le tradizioni e i rituali di questo Corpo sono di fatto un’eredità delle tante culture della montagna italiana, quando queste erano ancora vitali. Oggi questa eredità permane, anche se il substrato culturale  che in passato l’ha prodotta è stato largamente eroso. E non è un caso che il miglior documento di questa decadenza ce l’abbia dato un ex-ufficiale degli alpini, Nuto Revelli.
La nostra montagna che sta tornando alla boschina, ai cinghiali e ai lupi fa come quelle stelle che, pur essendo scomparse, ci trasmettono ancora per qualche tempo la loro luce. Questa luce, che ha illuminato Torino nei giorni scorsi, ci propone una riflessione più ampia. Infatti il lascito culturale della montagna  in termini cognitivi,estetici e morali – in Piemonte come in molte altre regioni italiane – è assai più vasto e permea tuttora la cultura stessa di grandi città come Torino e persino di città marittime come Trieste. Ebbene, a differenza delle stelle morte, la montagna esiste ancora, almeno come espressione geografica e, là dove la cultura montana è ancora viva, una certa luce continua a produrla. Ma quanta di più se ne potrebbe avere se si riuscisse di nuovo ad abitare come si deve questi 106.000 Kmq che fanno il 35% del nostro territorio nazionale!
Beppe Dematteis