L’inizio del nuovo millennio ha riservato non poche sorprese per le Alpi, soprattutto sul versante italiano. La prima è stata l’inattesa ripresa demografica di un numero considerevole di comuni. Sempre più si parla dunque di “nuovi montanari” e di “montanari per scelta”. Sorprendentemente alto è anche il numero dei nuovi abitanti stranieri, spesso montanari “per necessità”, alla ricerca di un salario e di una casa, piuttosto che per scelta. Infine, molti comuni alpini stanno oggi contribuendo a far fronte all’ultima e drammatica ondata migratoria accogliendo rifugiati e richiedenti asilo, “montanari per forza”.
Questi fenomeni non hanno mancato di attrarre l’attenzione dei media, ma al tempo stesso hanno messo a nudo carenze di informazione che possono anch’esse apparire sorprendenti. In particolare, gli studi sui nuovi montanari in Italia, pur numerosi, denunciano una scarsa conoscenza di quanto accade negli altri settori delle Alpi. Il corposo Rapporto sui Cambiamenti demografici nelle Alpi, pubblicato dalla Convenzione delle Alpi nel 2015, offre qualche aiuto mostrando che anche in Francia, Svizzera, Austria, Germania e Slovenia le regioni alpine si sono trasformate da aree di emigrazione in aree d’immigrazione e che l’apporto degli immigrati stranieri è cospicuo. Nulla però viene detto sui “montanari per forza” e assai poco su quali siano – e quanto possano variare tra i  diversi paesi – le opportunità e i vincoli che condizionano l’insediamento di nuovi abitanti.

Il gruppo di lavoro Demografia e occupazione istituito dalla Convenzione delle Alpi nel 2009, e che ha operato fino al 2012 per gettare le basi del Rapporto, aveva in realtà raccomandato di indagare più da vicino queste differenze, ma un approfondimento si è purtroppo rivelato difficoltoso anche perché la loro stessa complessità spesso ne impedisce una rapida misurazione statistica. L’arrivo dei profughi conferma ora con forza la necessità di tornare su questi temi. Se l’Europa, come è sotto gli occhi di tutti, non presenta un fronte unitario nei confronti dei migranti, va da sé che differenze devono esistere anche all’interno del perimetro della Convenzione, solcato dalle frontiere tra gli stati che a partire dal 1991 l’hanno sottoscritta.
Le ragioni di questa tendenza a “dimenticare le frontiere” sono comprensibili. Soprattutto negli anni della Grande Guerra le frontiere alpine sono infatti state teatro di conflitti sanguinosi che le hanno elevate a tragici sacrari di identità nazionali. Ma come nota Marco Cuaz nel suo bel libro sul ruolo delle Alpi nella formazione dell’identità italiana (“Le Alpi”, Bologna, Il Mulino 2005, pp. 168-69), «a partire dagli anni Settanta, storici, geografi, antropologi hanno radicalmente mutato lo sguardo sulle Alpi», cercando l’unità culturale al di là del frazionamento politico e riscrivendo la storia alpina «in funzione di una cancellazione delle frontiere e di un nuovo modello di sviluppo sostenibile», progetto intorno al quale si è cementata la Convenzione delle Alpi.
Già nel 1998, nella sua autorevole “Geschichte der Alpen” (pubblicata in italiano un paio d’anni dopo a Lugano dall’editore Casagrande), lo storico svizzero Jon Mathieu aveva tuttavia osservato che questa riscrittura celava delle insidie, portando a trascurare le differenze politiche e socio-strutturali che sono esistite nel passato tra le porzioni dello spazio alpino appartenenti a diversi stati nazionali. Esse spiegano in gran parte profonde differenze nello spopolamento alpino tra il 1850 e il 1950 ed è molto probabile che stiano oggi dettando i tempi e i modi del ripopolamento così come dell’accoglienza. Poco però si è fatto per valutare comparativamente se e quanto diversi siano i margini di scelta e gli spazi d’azione che vengono offerti ai migranti, e quale sia la natura e la forza dei vincoli che sono loro imposti. Le frontiere che si vogliono dimenticare hanno sino ad ora ostacolato non poco il fluire di informazioni tra studiosi e operatori di diverse nazionalità, più inclini a raffrontare aree di montagna e di pianura all’interno del proprio paese che non le varie parti di quello spazio alpino che è pur sempre accomunato da caratteristiche che lo distinguono dalle terre basse da cui è circondato. Poiché nel complesso le terre alte sono sottopopolate, piani che mirino a colmare i vuoti e meglio equilibrare la struttura demografica e lavorativa non solo favorendo ulteriormente il neo-popolamento, ma anche dirigendo verso le montagne i rifugiati, appaiono in linea di massima giustificati. Ma occorre che la possibilità di indirizzare politiche e trapiantare buone pratiche sia vagliata alla luce delle variabili socio-strutturali che possono intervenire tanto a livello locale che sovralocale, e in questo senso il lavoro avviato dall’incontro finalmente inter-alpino di Salecina appare della massima importanza.
Pier Paolo Viazzo