Tutti vi sarete probabilmente dimenticati di Fiammetta.
Forse, con un breve rimando, la ricorderete. Fiammetta, quando aveva dieci anni di età, è quella bambina e alunna che durante il lockdown da Covid-19 salì agli onori delle cronache dal suo banco, il suo quaderno con le matite e il suo computer, mentre seguiva le lezioni scolastiche in dad in mezzo a un pascolo di Mezzolombardo, sulla fascia dei 1.000 m della Val di Sole. La sua mamma era operatrice sanitaria, così per non restare da sola seguiva il papà allevatore per fare scuola 2.0 su un prato, tra gli alberi, le capre e le mucche.
Moderna “viandante sul mare di nebbia”, pensando a Friedrich: noi, chiusi tra mura; lei, rivolta all’infinito, ma da una prospettiva ricomposta, seduta, con lo sguardo rivolto alla conoscenza.
Fiammetta e la sua famiglia hanno un valore grandemente simbolico per il tema sviluppato in questo numero. Ma ricordiamo brevemente la strada. Per lungo tempo, negli stereotipi urbani, la montagna è stata associata a un’idea di arretratezza, bassa scolarizzazione se non analfabetismo, come già scrivevano più di un ventennio fa Marco Aime e Pier Paolo Viazzo nell’ottavo numero de “L’Alpe”, dedicato ai bambini di montagna. “Lungi dall’essere sprofondati nell’ignoranza, hanno beneficiato nei secoli di una migliore istruzione rispetto agli abitanti delle terre basse. Se si va indietro nel tempo, si scopre che era più facile trovare una scuola elementare in un villaggio alpino che non in quelli di pianura, e che le scuole di montagna hanno invece contribuito a formare generazioni di montanari alfabetizzati più e meglio dei contadini di pianura”, scriveva invece Daniele Jalla nel primo numero della stessa rivista. A volte in realtà persino più di così: a Ghigo di Prali, nell’alta Val Chisone, quando non esisteva ancora il centro ecumenico valdese di Àgape, dalla prima metà dell’Ottocento ogni borgata era dotata di una scuola per l’istruzione primaria. Sono le scuole Beckwith, promosse e finanziate dall’omonimo generale inglese che abbracciò la religione valdese. Ancora visitabili, come musei. Una dotazione di servizi superiore al contemporaneo Alto Adige: l’unica Provincia alpina ad avere almeno una scuola per ogni Comune.
Poi il ribaltamento di questo scenario. Questo ruolo comunitario della montagna sociale viene grandemente annientato dalla fase industriale, le grandi dinamiche demografiche, la “pianurizzazione” delle valli, lo svuotamento di molti insediamenti – Comuni che perdono due, tre, cinque volte la popolazione residente del XIX secolo. Lo stereotipo urbano si sviluppa per svuotamento di senso, per contrapposizione di modelli: nel grande boom economico si afferma quella descrizione di Leslie Stephen, padre di Virginia Woolf, delle Alpi “terreno di gioco dell’Europa” (forse una delle più citate, dopo il suo uso ne “La nuova vita nelle Alpi” di Enrico Camanni): diventa profezia. La montagna ad uso e consumo. “Vacanze di Natale”, “Sempre più in alto!”, lo spostamento del gusto modernista della città nei confronti della montagna sono accompagnati dai volti di Jerry Calà e Mike Bongiorno nell’immaginario collettivo e mediatico. Lo stesso, per dire, che nello stesso periodo portava nelle grandi città a privilegiare “case moderne”, periferiche, piuttosto che i centri storici vecchi e malandati, ad amare il “linoleum” piuttosto che maioliche artistiche. Non solo un fatto di montagna, quindi: è il sorgere della nuova società dei consumi. Velocità, turismo, lavoro, vacanze, modernità: “Turismo in autostrada”, pubblicato da Mondadori, incarnò bene quello spirito.
La montagna diventa in parte desertificata: l’arretratezza che si impone progressivamente riguarda la scarsa dotazione di servizi, scuole piccole, prevalere di pluriclassi, difficile accessibilità, rischio chiusura per non raggiungimento delle soglie. Profezia che si autoverifica.
Intorno al simbolo di Fiammetta e i suoi genitori possiamo oggi riconoscere e definire nuovi scenari. Ama la scuola Fiammetta, la conoscenza, la sua montagna. Più matura di molti adulti, a sentirla – anche per questo venne invitata da Papa Francesco, di cui disse “un esempio”. Non ama invece il pc, ma le serve. E così per i suoi genitori, che vivono la loro vita, la loro territorialità, in uno spazio molto più ampio del passato. Uno spazio fisico, delle possibilità. E uno spazio mentale, della scelta.
Tutti aspetti contemplati dalle ricerche, i casi e i progetti dell’ultimo decennio. La ritrovata attrattività territoriale della montagna, ancorata alla dimensione ambientale. Nuovi percorsi per il lavoro e la residenza, anche quando “multilocalizzata”, dalla definizione creata da Manfred Perlik. I supporti dei servizi innovativi. Dai lavori intorno ai “Nuovi montanari” sviluppati inizialmente da Dislivelli (https://www.francoangeli.it/Libro/Nuovi-montanari-Abitare-le-Alpi-nel-XXI-secolo?Id=21784) alla recente “Voglia di restare” (https://www.donzelli.it/libro/9788855224420), dei giovani che scelgono di rimanere a vivere in montagna.
Non vanno certo scordati i gravosi problemi: dallo spaesamento (https://www.ibs.it/tramonto-delle-identita-tradizionali-spaesamento-libro-annibale-salsa/e/9788880683780) alla più terribile “malaombra” (https://www.ibs.it/malaombra-perturbante-caso-dei-suicidi-libro-aldo-bonomi/e/9788875782023). Ai danni fisici portati dalla desertificazione. Ai rischi delle aree a sovradimensionamento edilizio, mono-funzionali turistiche (https://oajournals.fupress.net/index.php/sdt/article/view/12325/11751).
Ma la montagna della complessità, quella dove è possibile il cambiamento, non vuole vivere più di estreme passioni. Almeno nei nuovi segnali.
Il suo credo sembra meno indirizzato all’Eros, quanto all’Àgape. Meno passione individuale e furore, il boom o la fine, l’eterno o il nulla. Maggiore attrazione per l’amore disinteressato, una vita attiva, credere negli altri: ricostruire comunità.
È da qui che le componenti intrinseche ai milieu radicati della montagna, mai interamente sotterrati nonostante il secolo breve del Novecento, possono definire nuovi percorsi.
Se ne intravvedono almeno due. Il primo, legato alle terre alte come riscoperto interesse al costruire comunità. Più comunità, meno community – da una citazione di Marco Aime del 2019 (https://www.mulino.it/isbn/9788815280879). Comunità come contesto di socialità, ma anche come produzione e lavoro. Dalla scuola di montagna alla voglia di restare. Alle possibilità – e la volontà – intorno alle diverse Fiammetta che cresceranno, che nasceranno.
Il secondo, legato allo sviluppo intorno al principio delle Alpi come laboratorio, proposto più volte diversamente ai contesti, ma ora forse ancorato a più integrati e solidali modelli di sviluppo – presentati da diversi altri articoli di questo numero. Qui possiamo progettare nuovi percorsi educativi che consolidino i progetti di comunità, nella direzione di una diversa proposta culturale rispetto alle grandi città – tentando uno scambio con esse e senza desiderarne la frattura – e la creazione di diverse sinergie nei rapporti con la professionalizzazione e il lavoro.
Le Alpi come costruzione di comunità e laboratori educativi sono insieme locali e internazionali, identitarie e comunitarie, protette e comunicanti.
Un modello educativo per tutti. Oggi, “Turismo in autostrada” non venderebbe probabilmente molte copie, mantenendone il titolo. Almeno su questo siamo cambiati forse un po’ tutti.
Interesserebbe forse di più “Alla ricerca delle Alpi perdute”. Una “recherche de territoir, de communauté”.
Alberto Di Gioia